08/11/2017 Ombretta Pisano 7599
Sono passati altri 40 anni (Atti 7,30) da che Mosè si stabilì a Madian, un periodo di vita di circa una generazione. E’ il tempo della vita ordinaria, feriale di Mosè; il tempo della sua macerazione, ma anche di una maturazione in senso buono, di una “liberazione” che lo rende capace di accogliere, nonostante il tempo e l’età, la novità dell’agire di Dio. In questo lasso di tempo, secondo quanto ci dicono i versetti conclusivi del cap. 2 dell’Esodo, la situazione di Israele non fa che peggiorare, e Dio non può più restare nascosto. La sua risposta è sottolineata da quattro verbi: egli ascolta, ricorda, vede e conosce. Tra tutti, il verbo “conoscere” (che nel testo viene tradotto con “se ne prese pensiero”) ci dà la misura del sentimento che spinge Dio a intervenire. Insieme al “vedere” ha un significato di carattere giudiziario, un “sapere come sono andati i fatti dopo averli appurati”, ma si tratta anche del verbo che esprime la conoscenza esperienziale, quella che genera la comunione più intima. Questo “conoscere” di Dio, rivolto alle sofferenze del suo popolo, fa sì che Egli si “abbassi” fino a terra, per farsene compagno.
Accade, allora, qualcosa che irrompe nell’ordinarietà della vita di Mosè. Egli “esce” di nuovo, un atto che non ha nulla di eroico, ma è quello umile con cui apre la sua giornata lavorativa. In questa ferialità anonima e semplice, avviene un fatto strano. Un cespuglio avvolto nel fuoco che, nonostante sia secco come tutti i cespugli che si trovano nel deserto, anziché incenerirsi in pochi minuti, resta integro.
Qui è importante notare il comportamento di Mosè. Un Mosè inaridito e disilluso, cinico, amareggiato, rassegnato nella sua vecchiaia (ha 80 anni!) avrebbe liquidato il fenomeno con indifferenza, oppure con paura per l’incolumità del suo gregge, reazioni che lo avrebbero portato ad allontanarsi. Invece il testo ci dice che “si meravigliò”, che Mosè non ha perso la sua capacità di meravigliarsi, di voler “vedere”, come quando era un giovane generoso, pronto a intervenire per le giuste cause. Il nostro testo è chiaro nel farci accorgere che se Mosè, per questa capacità di meravigliarsi ancora, non si fosse avvicinato a vedere, non sarebbe stato raggiunto dalla voce di Dio. Una voce che lo chiama: “Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò …”.
Il modo in cui Dio si manifesta, con il fuoco e in un cespuglio secco, sono degli indizi utili per capire i segni della presenza divina: il fuoco non ha contorni, e sfugge costantemente allo sguardo umano e per questo è un simbolo ideale per dire la trascendenza di Dio, il suo essere fuori dalla portata umana; il cespuglio è l’umiltà con cui Dio si avvicina a colui che chiama e al suo popolo. La tradizione ebraica commenta così questo farsi prossimo di Dio nel cespuglio: “Perché in un roveto?, si chiedono i nostri dottori. Rabbì Eliezer risponde: “Perché il roveto è la più umile delle piante, e Israele il più piccolo dei popoli”. In questo incontro, tutto feriale, tra una persona aperta all’imprevedibile di Dio, e Dio che nella sua trascendenza si fa compagno del suo popolo sofferente, avviene una vocazione. Dio risponde sempre chiamando.
Tra il sentirsi chiamare per nome due volte e la risposta “eccomi”, davanti a Mosè passano tutti gli anni della sua vita, da quando è stato “salvato dalle acque” alla sua migrazione, fino al momento in cui è uscito a pascolare, come tutti i giorni, il gregge del suocero. È la prima volta che Mosè ascolta la voce di Dio, ed è la prima volta che si sente chiamare da lui, ma adesso capisce che Dio conosceva il suo nome da sempre e che c’era Dio anche nel suo passato, quando era incapace di riconoscerlo. Con la vocazione, tutta la storia passata, compreso il fallimento e il peccato, si rivela come la trama di un disegno magnifico.Come tutti i chiamati della storia biblica, Mosè risponde “eccomi”. “Eccomi” è la risposta di slancio del Mosè generoso ed entusiasta. C’è un ritorno di Mosè alla sua verità, a quel sogno iniziale. Dio lo chiama e lui ritorna. Ma torna in un modo diverso, cosciente che l’incontro col Signore gli impone di “togliere i sandali” davanti ad una “terra (adamah) santa”, gli impone l’umiltà di sapersi riconoscere povera creatura (“adam”), passata in mezzo al fallimento e al peccato ma ancora cercata da Dio, come tutti noi, per essere segno di salvezza presso i nostri fratelli.(Continua)
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“Nel lungo corso di quegli anni, il re d'Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero.
Ora Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l'Oreb. L'angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: “Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?”. Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: “Mosè, Mosè!”. Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!”. E disse: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio”
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