30/09/2019 Ombretta Pisano 7587
Sono passati cinque giorni dal nostro arrivo. Molto più tempo sembra passato da che siamo arrivati, forse complice il fatto di avere già visitato così tante cose, avere percorso così tanti chilometri e anche avere visto tante cose nuove. Stamattina, secondo giorno della festa di Rosh haShanah, la città ci è apparsa come Roma di domenica mattina: un pigro risveglio, le strade vuote (ah, per un po’ non sentire i clacson suonare!), le famiglie che si recano alla spicciolata alla sinagoga per la liturgia. Dopo cinque giorni anche la stanchezza comincia a farsi sentire, così abbiamo deciso di assecondare anche noi la pigrizia del giorno, camminando con lentezza verso il cosiddetto “Monte Sion cristiano”, cioè la collina dominata dalla chiesa della Dormizione di Maria nelle cui vicinanze sorge il Cenacolo, dove si ricorda l’istituzione dell’Eucaristia. Una passeggiata riposante, insomma, senza fretta e senza mète da raggiungere, solo una via da percorrere aperti a quanto avrebbe potuto venirci incontro.
Abbiamo disceso la grande arteria della Keren haYesod street passando accanto al Mulino di Montefiore (dal nome del filantropo Moses Montefiore che nel 1857 edificò l’intero quartiere che si estende di fronte alle mura occidentali di Gerusalemme) scendendo ancora per King David Street all’interno del Liberty Bell Park. Abbiamo sostato sulla panchina di una piccola piazzetta deliziosa circondata da alberi, con al centro una fontana decorata da grandi leoni, per continuare poi a scendere verso la vallata di Hinnom, l’antica Geenna. A vederla oggi, con le sue ampie aree verdi, i suoi giardini, l’arena per gli spettacoli, gli ulivi, occorre fare un notevole sforzo di immaginazione per evocarla come luogo di disperazione e dannazione. Antico luogo di sacrifici di bambini (contro cui si scaglia il profeta Geremia, in Ger 7,31) la Geenna, situata proprio sotto l’antico quartiere nobile dei palazzi del re e della corte, riceveva ogni tipo di scarto che veniva buttato giù dall’alto. Frequenti erano i roghi, e l’odore nauseante. Ma non solo questo: costeggiandola come abbiamo fatto noi ci si rende conto della sua acustica impressionante, che di certo aggiungeva alle immagini e agli odori anche suoni raccapriccianti, come dovevano essere i versi dei nugoli di corvi che si riversavano sulle immondizie e magari sul cadavere di qualche sventurato non reclamato da nessuno. Insomma, qualcosa di più di una discarica, il luogo dello scarto per eccellenza (che oggigiorno evocheremmo con le immagini delle “terre dei fuochi”). E’ così che, al tempo di Gesù, si descriveva lo stato di chi si perdeva, il “luogo” cui è destinato a finire chi ha reso uno scarto la propria vita. La valle termina con quello che era chiamato “campo di sangue”, il luogo della morte di Giuda, che va ad incrociare un’altra vallata, quella del torrente Cedron, che passa sotto al Monte degli Ulivi separandolo dalla collina del Tempio.
Arrivati in cima al monte Sion cristiano, anziché andare direttamente verso il Cenacolo e la chiesa della Dormizione, abbiamo fatto una piccola deviazione (un paio di centinaia di metri). Proprio poco prima di arrivare in cima, sulla destra della Malki Tzedek street, in una piccola discesa, si trova una chiesa molto cara alla tradizione cristiana, quella di San Pietro in Gallicantu, in cui si ricorda il pianto di Pietro al canto del gallo, la notte in cui rinnegò per tre volte Gesù. Qui, infatti, si suppone si trovasse la casa di Caifa, il sommo sacerdote, che la notte prima della crocifissione sottopose Gesù all’interrogatorio. La chiesa, che si trova sotto la custodia dei Padri Assunzionisti francesi, è stata restaurata dal 1994 al 1997 e vi si accede pagando 10 shekel a persona. Chi vi arriva, trova un’area molto bella e curata, una caffetteria, un giardino con un bellissimo panorama sul Cedron, sul Monte degli Ulivi (da cui Gesù quella notte venne fatto salire) e sulla spianata del Tempio. A dare ulteriore concretezza all’episodio narrato dai vangeli, il canto vero, in lontananza, dei galli nei cortili delle case della collina di fronte, l’attuale quartiere arabo di Silwan. All’interno, nella parte più bassa della chiesa, si trovano degli ipogei che in epoca bizantina venivano indicati come il luogo della detenzione di Gesù e una profonda cisterna, ritenuta il luogo in cui venne gettato il profeta Geremia (Ger 38,1-13).
Questa chiesa è un piccolo gioiello tra quelli che ricordano gli eventi più drammatici della vita di Gesù, uno di quelli che forse ci sono più vicini, perché oltre ad essere memoria di un evento profondamente drammatico per Gesù lo è per Pietro, cioè per “uno di noi”, potremmo dire. Dentro la chiesa, sopra l’altare, si trova una lunetta in cui è dipinto proprio Pietro, nello stile delle icone, con lo sguardo fisso nel vuoto di una tristezza abissale.
Quanta malinconica tenerezza sa suscitare questa immagine, lo sguardo perso di Pietro davanti alla verità di un amore, quello suo per Gesù, drammaticamente insufficiente nonostante pensasse che fosse forte. Ma cos’è stato, per Pietro, quel momento in cui il gallo ha cantato! E’ stato il momento della sua verità di creatura. Eppure, non aveva già in precedenza chiesto a Gesù, la notte del miracolo della pesca abbondante, di allontanarsi da lui, peccatore com’era? Cosa fa di diverso questo canto del gallo? Apre in lui la porta allo sgomento, quello raggelato dell’amante che si rende conto di avere appena lasciato andare via l’amato senza più poterlo ritrovare! Forse si tratta dell’immagine nostra e del nostro sguardo, improvvisamente costretto a inchiodarsi sulla miseria della nostra incapacità di amare. Davanti alla quale, però, come con Pietro, Gesù non si ferma, ma, al contrario, reagisce affidando persone (Gv 21,15-19). Purificato dalla conoscenza del dolore della perdita e perciò capace di proiettarsi oltre, l’amore vero si lascerà portare anche dove non avrebbe mai voluto arrivare.
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