Articolo: Alcune note sulle categorie di “purità/impurità” nella tradizione ebraica e musulmana

22/11/2012     Maria Brutti     7677

  1. Il concetto di “Purità e Impurità” come discriminante

Come suggeriva Mary Douglas nella introduzione al libro “Purezza e Pericolo”, ancora oggi fondamentale per chi si accosta alla ricerca sulle categorie del puro e dell’impuro, il secolo XIX ha visto nelle religioni primitive due caratteristiche che le separavano del tutto dalle grandi religioni della terra: 1) erano ispirate dalla paura; 2) erano “inestricabilmente confuse con la contaminazione e l’igiene”.[1]

La stessa Douglas osserva però come gli antropologi che si sono rivolti a studiare queste culture primitive non abbiano in realtà trovato tracce di questa paura, che non può perciò essere considerata una guida adatta alla comprensione di queste religioni. Al contrario, però, se bene intese, l’idea della contaminazione e, di conseguenza, i riti della purità e della impurità possono costituire una pista giusta, in quanto creano “l’unificazione dell’esperienza”.[2] Per Mary Douglas nella vita sociale le idee di contaminazione agiscono a due livelli, “uno ampiamente strumentale, l’altro di natura espressiva”. Al primo livello, esse possono costituire una categoria per definire i confini, rivendicare una posizione sociale. Servono per controllare quindi e per discriminare, dice Douglas, “per sistematizzare un’esperienza di per sé disordinata”.[3] Tuttavia questo non vuol dire che le culture primitive in cui sono nate queste idee siano statiche e impongano istituzioni sociali rigide. Anzi lo studio delle religioni primitive mostra che nelle loro strutture simboliche vi è uno spazio per la meditazione sui grandi misteri della religione e della filosofia. Il livello “espressivo” della idea di contaminazione comporta quindi anche la riflessione sul rapporto tra l’ordine e il disordine, l’essere e il non essere, la vita e la morte.[4]

Ambedue questi due comprensioni delle regole di purità e impurità, e cioè: a) come categoria di una struttura sociale; b) come livello “espressivo” saranno tenute presenti nello svolgimento di questa ricerca, che ha un carattere soprattutto di tipo storico-antropologico.

Secondo Mircea Eliade, nella religione primitiva mancava ogni distinzione tra sacro e impuro: il sacro è nello stesso tempo «sacro» e «contaminato». Questo apparente paradosso, secondo Douglas, può avere un senso se consideriamo il significato che il sacro aveva presso i popoli primitivi: poco più che una proibizione, la quale porta a distinguere cose ed azioni che sono soggette a restrizioni e cose che non lo sono. Tra le restrizioni, ci sono sia quelle che hanno lo scopo di proteggere la divinità dalla profanazione sia quelle che vogliono proteggere il profano dalla intrusione della divinità. Le regole del sacro sono dunque norme che limitano la divinità e l’impurità costituisce il pericolo di contatto con essa. Questa concezione trova una corrispondenza anche nel linguaggio; ad es. la parola latina sacer ha un significato di restrizione, in quanto si riferisce agli dèi e si può applicare sia all’idea di dissacrazione che a quella di consacrazione. La radice ebraica k-d-sh ha il valore di “separato”.[5]  E’ tuttavia  un’idea vera per determinate culture, ma non per altre: ad esempio, l’idea che impuro e sacro possano appartenere a una stessa categoria linguistica, è assurda nell’induismo. Tuttavia, l’idea di contaminazione degli indù introduce una interpretazione nuova che vede il sacro e il profano non come opposti, ma come categorie relative: ciò che è puro per una cosa, può essere impuro per un’altra.[6]

Riflettendo su quella che chiamava “confusione” tra puro e impuro, già Frazer ne aveva tratto la convinzione che essa fosse caratteristica del pensiero primitivo/selvaggio, nel quale i concetti di santità e di impurità non erano ancora ben distinti, ma erano fusi in “una sorta di fumosa fluidità alla quale noi diamo nome di tabù”.[7] A partire da concezioni come questa, venne così elaborato un criterio di distinzioni tra religioni primitive e avanzate: “se primitive, non si potevano distinguere le regole della santità da quelle dell’impurità; se avanzate, le regole dell’impurità erano scomparse dalla religione”.[8] Di conseguenza, queste regole furono ristrette solo a norme igieniche e non ebbero più nulla a che fare con la religione.[9] In questo modo, vennero intese, ad esempio, le regole alimentari di Mosè, a proposito delle quali Douglas non esclude la presenza anche di ragioni igieniche, ma afferma che, pur accogliendo la concezione del materialismo medico, per la quale, ad es., un sogno o una visione vengono spiegati come causati da droghe e o da un’indigestione, è necessario non escludere però altri approcci. La studiosa ritiene però dannosa anche l’idea diametralmente opposta, per la quale le nostre pratiche quotidiane di lavarci, disinfettarci etc., avrebbero una somiglianza solo superficiale con le purificazioni rituali. Le nostre sarebbero solo legate all’igiene, mentre le loro sarebbero simboliche, come, ad es., tenere lontano gli spiriti.[10]

Queste affermazioni richiedono un approccio più diretto e più specifico al problema che interessa questo studio: la concezione e le regole del puro e dell’impuro all’interno delle tradizioni ebraica e musulmana.

2.  Purità e Impurità nell’Ebraismo

Come già osservava De Vaux, nella mentalità antica l’impuro e il sacro sono nozioni connesse, in quanto contengono entrambi una forza misteriosa e terrificante, che agisce per contatto e mette in stato di interdizione. L’impuro e il sacro sono ugualmente intoccabili e colui che ne è toccato diventa, a sua volta, “intoccabile”. Queste concezioni si ritrovano nella Bibbia: non si può toccare l’Arca dell’Alleanza e non si può toccare un cadavere; la madre deve purificarsi dopo il parto che l’ha resa impura, il sacerdote deve cambiare le vesti dopo il sacrificio. Secondo De Vaux, non si tratta di impurità fisica o di una particolare virtù dell’anima, ma di stati dai quali bisogna uscire, per rientrare nella vita normale.[11] .

Essendo il Tempio la dimora del Dio Vivente, esso irradiava la sua santità sopra Gerusalemme. Questo fatto però rendeva la città eccezionalmente vulnerabile all’impurità. Per proteggere la sua purità, Antioco III, re dei Seleucidi, nel III sec. a.C., fece affiggere un proclama alle porta della città e, probabilmente, anche alle porte del tempio. In esso, erano contenute misure che avevano lo scopo di impedire la contaminazione della Città Santa ad opera della carcassa di un animale; altre impedivano l’allevamento nella città di animali inadatti al consumo giudaico ed anche l’introduzione nella città della carne di tali animali. Inoltre, nessun ebreo poteva penetrare nel cortile dell’altare del tempio se prima non aveva fatto un’abluzione rituale, mentre allo straniero non era assolutamente permesso di entrare nel cortile dell’altare. Questa esclusione appare problematica, in quanto la Torah obbliga lo straniero di passaggio ad offrire sacrifici al Dio di Gerusalemme (Lev 17,8).[12] E’ tuttavia una esclusione dalla quale possiamo attribuire un particolare significato alle leggi della purità. Secondo Bickerman, infatti, mentre in Grecia chiunque fosse ritualmente puro, poteva entrare in un tempio, perfino uno schiavo o uno straniero, la particolarità di Gerusalemme consisteva nel fatto che solo i figli di Israele potevano essere ritualmente puri. Inoltre, mentre l’impurità dei pagani poteva essere esterna o ex natura, per gli ebrei era solo ex lege. Johanan Ben Zakkai, un rabbino del I sec. d.C., disse: “La morte non rende impuri né l’acqua rende puri. E’ un decreto del Sovrano Re dei Re”.[13]

In relazione alla sacralità del tempio, spettava soprattutto ai sacerdoti l’obbligo della purità. Essi erano soggetti perciò a una serie di regole che riguardavano non solo la loro attività cultica, m anche la loro vita privata. Ad esempio, i sacerdoti non potevano sposare una prostituta o una ragazza che aveva perso la sua verginità o una donna ripudiata dal marito, ma solo una vergine o una vedova di discendenza ebraica; dovevano inoltre evitare ogni contatto con il cadavere in quanto persino entrare in una casa in cui vi sia un cadavere rende impuri. Ai sacerdoti era proibito perciò  di accostarsi a un defunto o anche di prendere parei alle cerimonie funebri. Nel caso del sommo sacerdote, poi, le condizioni di purità richieste erano maggiori e le regole da osservare, quindi, più severe.[14] La gerarchia nei gradi di purità è stata osservata anche riguardo alle regole di contaminazione dei bramini. Vengono infatti riconosciuti tre gradi di purezza religiosa: quello più elevato, è necessario per compiere un atto di culto; un grado intermedio è la condizione richiesta normalmente; ed infine vi è lo stato di impurità. Allo stato più elevato si può accedere solo attraverso il rito del lavacro[15],

Un particolare caso nell’ebraismo è quello che fa riferimento alla comunità di Qumran dove l’impurità era sinonimo di peccato e costituiva una forza maligna, che possedeva l’uomo fin dal suo concepimento.[16] Nella Regola della comunità (1QS 3: 3-6) si legge che chi non entra a far parte della setta “non sarà giustificato per la grande (?) durezza del suo cuore…non sarà santificato nemmeno da tutta l’acqua dei mari e dei fiumi…ma resterà completamente impuro per tutto il tempo che rifiuterà la volontà di Dio”. Di conseguenza, la via di salvezza coincide con la purificazione; per questo le norme di purità erano particolarmente importanti per la comunità.[17]Come per i sacerdoti, anche a Qumran le regole di purità e impurità delimitano una categoria di persone: i membri della comunità di perfetti.

Tali regole però, nell’ebraismo, non sono legate solo all’ambito cultico, ma anche alla vita quotidiana. La Bibbia (Lev 11.15; Num 5:1-4 e specialmente Num 19) presenta norme numerose e dettagliate nelle quali vengono dichiarati impuri e causa di impurità certi fatti della vita sessuale; alcuni fenomeni che si manifestano su cose e persone, identificati come “lebbre”; i cadaveri sia di uomini che di animali. Nella Mishnah queste norme vengono ulteriormente sviluppate nei dodici trattati del Seder Tohorot. Accanto a queste norme troviamo anche quelle concernenti la rimozione dell’impurità mediante sacrifici e abluzioni. Uno dei principali problemi discussi riguarda quale acqua si debba usare per aspergere le mani, per lavare gli utensili e per il bagno di purificazione[18]

3. Purità e Impurità nell’Islam

Nella religione islamica, Tahāra è la rubrica sotto la quale, nei manuali di fikh,  sono discussi l’ordine rituale e la purità. In se stesso, il termine sembra comprendere due aspetti: uno materiale e uno formale.

L’aspetto materiale può comprendere cibi e altre sostanze che debbono essere evitate o rimosse, ad esempio il maiale, gli escrementi, il sangue, le carcasse di animali, ma anche il mezzo per rimuoverli, e cioè il numero di abluzioni, la caratteristica dell’acqua da usare e simili. Si può dire in generale che sostanze connesse con la morte, e ciò che esce dall’essere umano: sangue, urina, sperma, devono essere evitate o, per lo meno, allontanate in modo appropriato. Un contatto di un credente musulmano con una qualsiasi di queste sostanze lo rende contaminato.

Gli aspetti formali della tahāra riguardano l’idoneità della persona ad eseguire pratiche rituali: la mestruazione, il parto, defecare e urinare, i contatti sessuali e varie  forme di perdita di controllo, quali uno svenimento o un sonno, comportano la perdità della purità.[19]

La  tahāra è richiesta come condizione essenziale per la preghiera rituale (salat): non solo la persona del credente, ma anche i suoi abiti e il suolo in cui si trova devono essere ritualmente puri.[20] Questo obbligo, già presente nel rituale giudaico, è espresso chiaramente in Corano V,6:

 O voi che credete, quando vi levate a pregare lavatevi il volto e le mani fino al gomito, e strofinate con la mano bagnata la testa e i piedi fino alle caviglie, e se siete in stato di impurità, purificatevi; e se siete malati o in viaggio, o se uscite dalla latrina o avete avuto rapporti con donne e non trovate acqua, usate allora buona sabbia e passatevela sul volto e sulle mani. Iddio non vuole imporvi alcunché di gravoso, bensì purificarvi e compiere su voi la Sua grazia a ché voi siate a Lui riconoscenti.

Come suggerito da Denis Hermann,[21] in tutti i testi di fikh musulmani ci sono capitoli sulla najasat (=purificazione) che precedono la preghiera. In un manuale della scuola di giurisprudenza islamica maalaki, ho potuto leggere alle prime pagine i seguenti pre-requisiti della preghiera: 1) rivolgersi in direzione della Mecca; 2) rimuovere dal corpo ogni tipo di sporcizia, ad es. urime, feci, sangue; 3) coprire la propria nudità, lasciando scoperto solo il volto e la  mani; 4) compiere ciò che è conosciuto come wudu.[22]

Il wudu, cioè l’abluzione piccola o purificazione da una fonte minore di impurità,[23] corrisponde a uno dei cinque atti cultici (‘ibādāt) che costituiscono, secondo i giuristi musulmani, le basi dell’Islam. Il gran numero delle tradizioni profetiche concernenti la purità, la lenta evoluzione dell’argomento nei trattati di fikh e le interminabili controversie legali riguardo ai più piccoli dettagli ne testimoniano l’importanza per il pensiero musulmano. Una di queste, come abbiamo visto già per il Giudaismo, riguardava l’acqua, ritenuta secondo Corano V, 11 e XXV, 48 l’elemento purificatorio per eccellenza. Ci si chiedeva: Quale tipo di acqua purifica? Come si può distinguere l’acqua pura da quella impura? Quali altri liquidi possono essere assimilati all’acqua?[24]

Un ulteriore dibattito tra le diverse scuole riguardò la questione dell’intenzione preliminare (niyya): per alcuni le abluzioni non erano valide senza la intenzione; per altri essa era necessaria solo per certi tipi di purificazione. Ad un certo punto, la questione assunse tale importanza da costituire uno dei segni di adesione ad una o ad un’altra scuola di leggi.[25] Un altro problema ancora riguardava come stabilire se una persona si trovava o no in stato di impurità. Tuttavia per questa questione valeva un principio: se una persona è nel dubbio se è stata esposta o no a una impurità, può in modo legittimo considerarsi in stato di purità; ma se è il suo stato di purità ad essere oggetto di dubbio, può considerare se stessa come impura e deve quindi compiere il wudu.[26]

La seconda forma di abluzione si chiama GHUSL: abluzione grande. Dopo aver dichiarato la niyya, tutto il corpo viene immerso nell’acqua, compresa la testa. E’ ritenuta necessaria dopo il parto, dopo la mestruazione, per i rapporti sessuali. Chiunque si trovi in questo stato di inpurità maggiore è soggetto agli stessi divieti di coloro che sono incorsi in una impurità minore. In aggiunta non può recitare il Corano né andare alla moschea; invece le donne che sono mestruate o hanno partorito possono recitare il Corano, ma il loro digiuno e le loro preghiere rituali non sono riconosciute. E’ proibito inoltre avere rapporti sessuali prima che abbiamo compiuto il ghusl.

Anche riguardo all’adempimento del ghusl ci furono discussioni, ma un principio su cui le scuole ortodosse sembrano concordare è che, se non è possibile usare l’acqua, il credente musulmano può anche ricorrere alla purificazione con la sabbia.[27]

Un aspetto particolare del problema riguarda implicazioni sociali del concetto di impurità. Il Corano, alla sura IX, 28 recita: O voi che credete! In verità, gli idolatri sono impurità e non s’accostino dunque alla Santa Moschea dopo questo loro anno.

Il problema è di sapere chi siano questi “idolatri”. Nei libri dei giuristi sciiti, il credente è colui che aderisce ai principi della religione, e quindi è puro, mentre gli altri sono impuri: in questo caso si tratterebbe dei sunniti. La purità o l’impurità sono, in questo caso, principio di discriminazione. Durante l’epoca safavide (1501-1736), quando in Iran venne instaurato lo sciismo, nella città di Ishafan venne creato il quartiere di Jolfa, dove vennero portati i cristiani armeni. Il fiume divideva in due il lato orientale della città da quello occidentale, creando così una zona pura e una impura. Soprattutto nelle regioni centrali dell’Iran, a maggioranza sciita, dalla osservanza della purità e impurità, derivarono alcune conseguenze sociali che riguardavano i seguenti problemi: 1) Interdizione dell’uso dell’hammam; 2) Circolazione di una persona all’interno delle città: se una persona è impura, può circolare oppure no?; 3) Transazione finanziaria: come bisogna comportarsi con il denaro toccato da un impuro? In quest’ultimo caso, valeva il principio che il denaro era puro, se la persona impura comprava il prodotto, ma se un musulmano acquistava da un impuro, il denaro era impuro.[28]

Nel XIX secolo vennero emanate delle leggi a proposito delle relazioni con gli ebrei, anch’essi impuri: 1) Un ebreo doveva coprire con un involucro la carne che acquistava, per evitare la contaminazione; 2) Un ebreo non poteva lavare gli oggetti di casa perché l’acqua poteva scolare per strada e renderla impura; 3) Quando un ebreo poteva uscire di casa (non doveva piovere e non doveva far caldo) doveva tenersi a lato della strada e non al centro; 4) Infine, quando un ebreo toccava un prodotto, doveva comprarlo.[29]

Dalla rapida rassegna delle diverse concezioni e delle varie forme di purità/impurità nelle relgioni ebraica e musulmana, si può chiaramente vedere come queste leggi abbiano influenza non solo sulla vita religiosa/cultuale, ma anche sull’attività sociale e quotidiana degli individui, sia credenti che non credenti.

Vorrei tuttavia ora ritornare al punto di partenza di questo lavoro ed esaminare più da vicino il contributo che alla scoperta delle categorie purità/impurità ha dato la ricerca storico-antropologica negli anni successivi al libro della Douglas. Per motivi diversi, dovuti ai limiti di questo lavoro, al particolare mio interesse personale e alla tendenza stessa di molti studi odierni, mi riferirò in particolare alle implicazioni riferite all’ebraismo. 

4. Purità/Impurità e sviluppi della ricerca storico-antropologica

      In tempi recenti e a più riprese[30], Jonathan Klawans è tornato sul libro di Mary Douglas del 1966, considerando i risultati raggiunti dalla studiosa in quattro punti: 1) La rottura della barriera concettuale che associava la nozione di impurità alla categoria di “primitivo”, separandola perciò dalle religioni che si ritenevano più evolute; 2) Il riconoscimento della natura sistemica della concezione di contaminazione. La contaminazione, cioè, come una struttura i cui componenti non devono essere analizzati come se fossero a sé stanti; 3) La necessità di comprendere questi sistemi in modo simbolico. Douglas, ad esempio, interpreta le leggi alimentari ebraiche nel Libro del Levitico alla luce del racconto della creazione di Gen 1; 4) Infine la funzione sociale di questi sistemi simbolici, nel senso che essi influenzano e controllano il comportamento e l’interazione umana.[31]  Secondo Klawans, “Purity and Danger, in short, is a passionate defense of ritual in general, and purity rites in particular”.[32] Secondo la Douglas, i riti di purità non dovrebbero essere intesi solo come vuoti residui o ossessioni rituali. I rituali operano insieme per costruire sistemi simbolici espressivi, i quali non solo formulano idee, ma servono anche a rafforzarli. Inoltre Purity and Danger dimostra in modo persuasivo che le precedenti trattazioni dei riti di purità erano inficiati da due demoni: anti ritualismo ed evoluzionismo.[33]

Il periodo post-Douglas vede un crescente interesse verso questo tema, soprattutto in riferimento alle forme dell’ebraismo. Mancava soprattutto una dettagliata analisi della legge di purità nel mondo ebraico, biblico e post-biblico, secondo una prospettiva storica e a partire dalle intuizioni della Douglas. E’ quanto ha fatto in un libro pubblicato nel 1973 Jacob Neusner, forse il maggiore studioso contemporaneo di Ebraismo, il quale, sviluppando una descrizione del sistema di purità così come appare nelle diverse parti del Tanakh, procede cronologicamente, isolando e analizzando passaggi pertinenti in vari testi antichi dell’ebraismo del Secondo Tempio e del periodo rabbinico. Neusner conclude la sua analisi storica con un saggio nel quale riprende e discute le acquisizioni di Douglas.[34]

Neusner nota come la purità sia presentata dal codice sacerdotale come un concetto cultico, tuttavia non si può supporre che le leggi alimentari e altre forme di purità che troviamo nelle Scritture riguardassero solo i sacerdoti o fossero collegate solo al culto. E’ evidente che molti tabù riguardanti il cibo erano osservati da persone che non pensavano di entrare nel tempio e che non erano né farisei né esseni. Secondo Neusner quindi sono due le idee importanti sulla purità dell’antico Israele: 1) la purità e la impurità come soggetti cultici; 2)  esse possono servire come metafore per il comportamento morale e religioso, soprattutto riguardo al sesso, alla idolatria e alle azioni non etiche. Inoltre la purità rinvia strettamente alla santità. La Terra è santa, quindi dobbiamo essere trovati puri. Può essere profanata da impurità di vario tipo, che difficilmente appaiono essere di ordine cultico: alcuni animali, la donna dopo il parto, malattie della pelle, la muffa nella casa etc.[35]

Tuttavia, come osserva Klawans, Neusner si allontana da questa dicotomia due volte: quando discute i testi di Qumran riconosce che i settari considerano la colpa commessa non come una metafora, ma come una reale fonte di contaminazione e aggiunge che non si può distinguere tra impurità cultica e morale; quando, discutendo il punto di vista rabbinico che l’impurità viene come punizione per una colpa, Neusner afferma che la metafora biblica di peccato come contaminazione si era “frantumata”. Nella Bibbia, i peccati erano come impurità, ma per i rabbini certi peccati ora producono impurità. In quasi tutti gli altri casi, l’impurità come peccato rimane nell’ambito di una metafora.[36]   

Neusner discute poi quattro aspetti fondamentali del pensiero di Douglas. La tesi della studiosa secondo la quale la purità e la impurità, legate così fortemente al culto, servono a creare “unità nella esperienza” è vista da Neusner in modo critico, in quanto mancano scritti che possano confermare questo punto di vista durante il periodo del Secondo Tempio. Il modo con il quale Douglas vede la purità può dunque funzionare, a suo parere, solo per alcuni gruppi.[37]  Riguardo alla affermazione di Douglas in merito ad una possibilità di cambiamento delle idee di impurità e di impurità, Neusner  osserva che, riesaminando le idee di purità in una cultura letteraria, che appare sparsa nelle fonti per un periodo di circa 1000 anni, possiamo osservare non solo una notevole persistenza delle idee bibliche su questo tema, ma anche importanti sviluppi interamente al di fuori di questo contesto. Ma se possono esserci nuove interpretazioni della impurità, non troviamo nella lista biblica un aumento delle fonti di impurità.[38] Neusner riprende poi le affermazioni di Douglas prima riguardo alla relazione tra santo e puro, poi a quella tra impurità e peccato. Per la studiosa, il concetto di santità andava inteso come integrità e come completezza, a partire dalla osservazione che gran parte del Levitico è occupata nello stabilire la perfezione fisica per le cose presentate al tempio  e per le persone che vi si avvicinavano.[39] La santità è simboleggiata dunque dalla completezza; richiede che gli individui si conformino alla classe alla quale essi appartengono e che componenti di classi diverse non vengano mescolate.[40] Le leggi sui cibi puri e impuri erano dei simboli che ogni volta “inducevano alla meditazione sulla unità, purezza e completezza di Dio”.[41]

Ancora una volta però Neusner rimarca che tale approccio non è sostenuto dai dati dell’ ebraismo antico; quanto poi alla relazione tra impurità e peccato, essa nasce solo con i rabbini, in quanto nell’ ebraismo antico sarebbe difficile trovare la purificazione interpretata come un trattamento adeguato per errori morali.[42] Neusner sviluppa poi la sua tesi da una prospettiva storica. A suo parere, le idee di purità e impurità sono intimamente collegate ed espressive delle più ampie concezioni delle comunità che le conservano. La purità serve per differenziare una setta da un’altra.[43] Per un lungo periodo, purità ed impurità furono associate dai sacerdoti soprattutto al tempio, ma dopo la sua distruzione, fu necessario costruire un surrogato come pietra di fondazione della vita giudaica. Fu così che le regole di purità e una ideologia sulla impurità, indipendenti dall’esistenza del tempio, vennero incluse in più ampie strutture di pensiero, in modi differenti e per mezzo di sistemi di idee non correlati. L’immaginativa del tempio persistette anche dopo la sua distruzione, ma né i rabbini né i cristiani si fondarono sulla idea di purità precedente. Tuttavia il modello della purità sopravvisse soprattutto nell’ebraismo talmudico e per molti secoli le leggi di purità furono studiate e ampliate a dimostrare che la purità era un concetto che andava al di là del suo valore propriamente cultico.[44]

In appendice al libro di Neusner, Mary Douglas venne invitata a rispondere. Sottolineando la  differenza degli approcci tra uno storico e un antropologo, la studiosa riprese alcune categorie del suo pensiero. Ai fini di questo studio, considero solo due punti che mi sembrano particolarmente importanti.

Il primo riguarda il suo argomento che tutte le discussioni bibliche dell’impurità – quelle che Neusner riferisce al culto e quelle che egli vede come una metafora – sono parte di un sistema simbolico. Questa espressione, rileva Douglas, ha un valore diverso per uno storico e un antropologo, così come è diverso l’approccio più generale al tema della purità/impurità. Quando Neusner parla di simbolismo, egli vede in ogni regola unica o in un insieme di regole una metafora di bontà (goodness). Per la studiosa invece, il sistema simbolico consiste in regole di comportamento, azioni e aspettative che costituiscono la società stessa. Ogni società, in quanto tale, ha delle proprie regole, il cui principio dominante può essere per alcuni la giustizia, per altri l’amore e l’uguaglianza, ma nel caso della Bibbia, purità e impurità sono le categorie dominanti che portano alla santità.[45] L’altro principio interpretativo sul quale antropologi e storici possono non concordare riguarda il tempio e la sua centralità nella società dei tempi biblici, sostenuta dagli storici. Certamente, per  il pensiero ebraico questo era vero, ma per un antropologo, dato che le regole del tempio e della sessualità e del cibo sono un singolo sistema di analogie, esse non convergono su un punto, ma sostengono simultaneamente tutto l’universo morale e fisico nella loro sistematica interrelazione.[46]

      Ma per Neusner non è possibile parlare di un unico sistema.Come afferma infatti in un libro scritto circa 20 anni dopo,[47] diversi sistemi ebraici o ebraismi, interpretano ognuno a suo modo le categorie dell’antica religione di Israele, così come sono ritratte nella Bibbia. Ogni concezione che costituisca una singola lettura dell’argomento è insostenibile.[48] Così, ad es., nell’ebraismo di Qumran, impurità costituisce una metafora per peccato, mentre in un altro ebraismo, quello fissato dalla Mishnah verso il 200 d.C., la concezione della purità funziona in una struttura completamente diversa. Cioè, se nel sistema di Qumran, l’impurità è metafora di malvagità e l’opposto di impurità è virtù, e così, uno che ha disobbedito alla regola è dichiarato impuro, per contrasto, nel sistema della Mishnah, l’antonimo, o opposto della impurità è la santità. Inoltre, virtù e santità costituiscono due classificazioni distinte, in quanto una ha a che fare con la moralità, l’altra con l’ontologia, cioè con l’essere stesso della persona, in questo caso l’uomo ebreo.[49]

Ma già prima di questo libro di Neusner, Douglas aveva parzialmente rivisto le sue opinioni. Influenzata dal progresso negli studi biblici e spinta da una nuova acquisita facilità della lingua ebraica, si rivolse ad indagare soprattutto i Libri del Levitico e dei Numeri, elaborando alcuni diversi approcci al problema della purità/impurità.[50] Douglas rivaluta innanzi tutto la funzione della purità rituale nell’Israele biblico, riconoscendole un carattere peculiare. Ma riconosce soprattutto che il sistema di impurità ebraico non ha lo scopo di escludere o subordinare persone che appartengono alle classi inferiori o alle caste, in quanto tutti gli ebrei sono soggetti alla impurità rituale e tutti possono sottoporsi alla purificazione. Nessuno, nemmeno il povero o lo straniero, è escluso dai benefici della purificazione. Tuttavia, come osserva Klawans, anche in queste ultime opere, Douglas è agganciata alle funzioni sociali delle categorie rituali e  ancora enfatizza l’importanza del simbolismo del corpo, rimanendo impegnata in una critica della comprensione “anti-ritualistica” del comportamento religioso.[51]

 5.  Conclusione

Dopo Douglas e Neusner, la categoria purità/impurità è tuttora oggetto di studio e di ricerca, sia dal punto di vista antropologico che storico.[52] Tuttavia da questo breve lavoro e nei limiti delle mie possibilità, vorrei trarre alcune osservazioni, in riferimento alla elaborazione di questa categoria  nel pensiero religioso ebraico e musulmano:

1) Mi ha colpito l’analogia delle forme concettuali: lo stretto legame con l’elemento cultico, la somiglianza dei riti; il simbolismo della purificazione con l’acqua; la determinazione di regole.

2) E’ comune alla religione ebraica e musulmana l’influenza di queste regole sulla vita sociale e quotidiana. Esse vengono usate come discriminante ad indicare delle linee di confine, una separazione tra chi è ebreo o musulmano e chi non lo è. Anzi credo di poter dire che sia nel mondo ebraico che in quello musulmano esse creano delle divisioni all’interno della stessa comunità.

3) Questa terza osservazione con la quale vorrei concludere questo lavoro, si richiama più specificamente al pensiero ebraico sia perché per il pensiero musulmano mi è mancata la possibilità di approfondimento, sia perché più congeniale alla mia specifica preparazione.

In un libro recentemente uscito di uno studioso italiano, si afferma che “la categoria più caratteristica del pensiero ebraico, quella con cui gli ebrei interpretavano e classificavano il reale, è quella del «sacro/profano – impuro/puro». Fare la storia dell’evoluzione dei contenuti di questa categoria e del rapporto stesso dei termini di cui è composta, è un po’ fare la storia del pensiero ebraico”.[53]

Mi riferisco in particolare alla elaborazione del concetto di “sacro” che, per il popolo ebraico, come in realtà per tutti i popoli antichi, indicava una forza collegata con mondo del divino, una forza terribile che si riteneva avesse la capacità di uccidere chiunque vi entrasse in contatto e sulla quale l’uomo non poteva agire in  nessun modo.[54] Tuttavia in Lev 19,2 troviamo questo invito: “Siate sacri perché Io sono sacro; sono Jhwh, vostro Dio”, il quale inserisce Israele nella sfera del sacro, che tuttavia rimane pericoloso per l’uomo.[55] Il sacro, o la sacertà così intesi, indicano allora “uno stato di appartenenza a Dio, non secondo il principio della creazione, ma per un suo intervento nella storia”,[56] ed è qualcosa che contraddistingue e distingue gli uomini, in relazione alla quantità di sacro che ognuno possiede. Si viene allora a creare una scala di valori, dal più sacro (o meno impuro) verso il meno sacro (o il più impuro) che, nel giudaismo, ha a un estremo il sacerdote di grado più elevato e all’estremo opposto il pagano.[57]

Dunque la subordinazione, sociale-religiosa, non nasce da una differenziazione del sistema di impurità (tutti, abbiamo visto, possono purificarsi), ma da una ricerca diversa verso la santità, da una tensione verso quella perfezione che è comunque cercata attraverso il sistema del puro e dell’impuro. Anche il concetto di impurità, tuttavia, subisce una trasformazione. In origine, essa era una forza parallela al sacro: come nel cosmo agiva la forza tremenda del sacro, così nelle cose, negli animali e nell’uomo stesso c’era qualcosa, in presenza della quale, bisognava comportarsi con prudenza, “non letale all’uomo come il sacro, ma in ogni caso depotenziante”.[58]  Ma nella nuova concezione della tensione verso il sacro, l’impurità diviene qualcosa che impedisce il contatto con il sacro, cioè con Dio e si carica di valenze negative, in quanto conseguenza della trasgressione.[59] Un esempio di queste concezioni è presente nella comunità di Qumran, dove il sacro non fa più paura e diventa lo stato desiderato della natura umana più profonda.[60]  Nel pensiero degli uomini di Qumran d’altra parte l’uomo si trova in una impurità ontica, che fa parte della sua stessa natura.[61]

 Viste secondo questa ottica, le regole di purità e impurità hanno allora un significato che trascende le linee di demarcazione all’interno della società. Esse non costituiscono soltanto la mappa di un sistema sociale che coordina e classifica le cose secondo il loro posto appropriato,[62] ma  corrispondono fondamentalmente alla esigenza di un incontro con il sacro, una esigenza di perfezione, che si esprime anche in atti esteriori che hanno delle conseguenze sociali. Interpretare tuttavia la purità/impurità solo in relazione a questi atti esteriori, significa ridurne la portata ontica di significato.

 

 



[1] Purezza e Pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e di tabù, ed. Il Mulino, Bologna 1975, p. 19.

[2] Ibidem, pp. 20-21.

[3] Ibidem, p. 23.

[4] Ibidem, p. 25.

[5] Vedi Douglas, Purezza e Pericolo, p. 28.

[6] Ibidem, p. 29, dove Douglas riporta l’esempio della donna che mangia dalla foglia di cui ha appena finito di mangiare il marito. Questo comportamento, che di per sé avrebbe dato luogo a contaminazione, diventa invece segno di subordinazione..

[7] Ibidem, pp. 310-31.

[8] Douglas, Purezza e Pericolo, p. 32.

[9] Ibidem, dove Douglas osserva che lo stesso Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, 1912, escludeva dai suoi interessi il filone delle regole dell’impurità.

[10] Ibidem, pp. 59-61.

[11] Le Istituzioni dell’Antico Testamento, Marietti, Casale 1964, p. 444-445.

[12] E.J. Bickerman, Gli ebrei in età greca, Il Mulino, Bologna 1991, p. 188.

[13] Ibidem.

[14] E. Schürer –G. Vermes – F. Millar, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, II, Brescia 1987, pp. 299-302.

[15]  Vedi Douglas, Purezza e Pericolo, p. 61.

[16] Negli Inni di ringraziamento rinvenuti a Qumran, si legge: “L’uomo è nel peccato fino dall’utero” (1QH 4:29-30).

[17] Vedi J.H. Charlesworth, Gesù e la comunità di Qumran, Piemme, 1997, p. 157. Non entro in merito alla questione del rapporto tra Gesù e la purità sia perché troppo complessa sia perché, in quanto specifica, esula dai limiti di questo lavoro.

[18] . Schürer –G. Vermes – F. Millar, Storia del popolo giudaico al tempo di Gesù Cristo, pp. 567-571.  .

[19] Vedi A. K. Reinhardt, voce TAHARA, in The Encyclopaedia of Islam, X, T-U, Leiden 2000, p. 99.

[20] Vedi A. Bausani, L’Islam. Una religione, un’etica, una prassi politica, Garzanti, Milano 2006 (1° ed. 1980), p. 45.

[21] Conferenza del 6/12/2007 su “Purezza rituale nel mondo sciita”.

[22]Prayer and Purification according to Maaliki School of Islamic Jurisprudence. A Manual composed by Br. Abdullah bin Hamid Ali, pp. 11-12..

[23] Lo stato di impurità minore ha come effetto principale, universalmente riconosciuto, quello di rendere invalida la partecipazione al rito. E’ oggetto di controversie trale diverse scuole dei giuristi musulmani quali siano le impurità minori, vedi per questo E. Chaumont, voce wudu, The Encyclopaedia of Islam, XI, Leiden 2002, p. 218.

[24] Ibidem.

[25] Ibidem.

[26]The Encyclopaedia of Islam, XI, p. 219.

[27]Vedi G. Bousquet, voce GHUSL, The Encyclopaedia of Islam, II, 1965, p. 1104. Vedi anche Corano V, 6.

[28] Conferenza dott. Hermann.

[29] Ibidem. C’è da osservare tuttavia una osservazione di Hermann, il quale sottolineava come gli ulama che emettevano questi decreti contro l’impurità e si applicavano perché entrassero in funzione, erano personaggi religiosi di secondo piano. Alcuni di questi, come Allahdād, si erano consacrati alla questione scrivendo trattati sulla discriminazione tra esseri puri e impuri.

[30]J. Klawans, Impurity  and Sin in Ancient Judaism, University Press, Oxford 2000, pp. 7-10; Purity, Sacrifice and the Temple. Simbolism and Supersessionism in the Study of Ancient Judaism, University Press 2006, pp. 18-20.

[31]Impurity  and Sin in Ancient Judaism, pp. 8-9; Purity, Sacrifice and the Temple, pp. 18-19.

[32]Purity, Sacrifice and the Temple, p. 19.

[33] Ibidem.

[34]The Idea of the Purity in Ancient Judaism, Leiden 1973, pp. 119-130.

[35]The Idea of the Purity in Ancient Judaism, p. 108.

[36]Impurity  and Sin in Ancient Judaism, p. 10.

[37]The Idea of the Purity in Ancient Judaism, p. 120-123.

[38] Ibidem, p. 123.

[39] Vedi Purezza e Pericolo, pp. 86-87 dove Douglas estende questo concetto dal sacerdote alla sfera sociale e, particolarmente, agli accampamenti militari.

[40] Ibidem, p. 89.

[41] Ibidem, p. 94.

[42] The Idea of the Purity in Ancient Judaism, p. 127.

[43] Ibidem.

[44] Ibidem , p. 130.

[45]The Idea of the Purity in Ancient Judaism, p. 138.

[46]The Idea of the Purity in Ancient Judaism, p. 140.

[47]Judaic Law from Jesus toMishnah. A Systenatic Reply to Professor E.P. Sanders, SFSHS 84, Atlanta 1993, p. 205.

[48]J. Neusner, Judaic Law from Jesus toMishnah, p. 207.

[49]Ibidem.

[50]Vedi A. Douglas, In the Wilderness: the Doctrine of the Defilement in the Book of the Numbers, JSOT 158, Academic Press, Sheffield 1993; Idem, Leviticus as Literature, University Press, Oxford 1999.

[51]Klawans,Impurity  and Sin in Ancient Judaism, p. 19.

[52] Vedi per il Giudaismo antico rassegna di studi presente in Klawans, Impurity  and Sin in Ancient Judaism, pp. 12-20.

[53] P. Sacchi, Sacro/Profano/Impuro/Puro nella Bibbia e dintorni, ed. Morcelliana, Brescia 2007. 

[54] Vedi Sacro/Profano/Impuro/Puro nella Bibbia e dintorni, pp. 39-54 dove sono riportati i testi biblici relativi a queste concezioni.

[55] Ibidem, p. 83.

[56] Ibidem, p. 84.

[57] Ibidem.

[58] Sacchi, Sacro/Profano/Impuro/Puro nella Bibbia e dintorni, p. 55. Vedi anche pp. 55-76 dove l’autore passa in rassegna le diverse concezioni dell’impurità nella Bibbia.

[59] Ibidem, p. 87.

[60] Ibidem, p. 158.

[61] Ibidem, p. 172.

[62] Vedi quanto dice in un libro recentissimo N. Calduch-Benages, Il profumo del Vangelo. Gesù incontra le donne, Paoline, Milano 2007, pp. 19-21.