09/01/2013 Maria Brutti 7583
Riflessioni nello spirito della Giornata per l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei – 17 gennaio 2013
Parlando della fede ebraica dopo l’Olocausto, Emil Fackenheim affermava: “In ultima analisi, l’interrogativo è: Dove era Dio ad Auschwitz?”.[1] Questo interrogativo include il doloroso problema della relazione tra la presenza del male e la presenza di Dio nella storia.
Tra le differenti risposte date durante l’Olocausto, ma specialmente nel periodo post-Olocausto, si prenderanno qui in considerazione quelle di persone che, nella varietà della loro esperienza personale (un predicatore, un filosofo, uno studioso) si sono soffermate sulla prospettiva midrashica, da cui hanno derivato alcune risposte e nuove domande, che sono valide ancora per il giorno d’oggi. Particolarmente stimolanti sono, in questa direzione, i sermoni di Rabbi Kalonymous Shapira, che usò il midrash nelle sue predicazioni al Ghetto di Varsavia per incoraggiare e rafforzare la fede dei suoi discepoli.
1. Midrash al Ghetto di Varsavia
Rabbi Kalonymous Kalmish Shapira, “uomo di grande insegnamento, eloquenza e persuasione, che fu capace di trarre un significato nell’Olocausto”,[2] predicò nel Ghetto di Varsavia negli anni 1939-1942. Nel Settembre del 1939, all’inizio della Guerra, Rabbi Shapira, durante i bombardamenti aerei di Varsavia, perse suo figlio, sua nuora e sua cognata, ma continuòle sue attività educative e comunitarie, pronunciando discorsi per lo Shabbat e per le festività, che egli scrisse. Nel 1943 egli sotterrò i suoi manoscritti che gli sopravvissero e furono pubblicati in Israele sotto il titolo: Esh Kodesh (Fuoco di Santità).[3] In un discorso del 14 febbraio 1942, quando la sua casa era già stata incorporata nel ghetto, lesse ai suoi discepoli un passo midrashico che raccontava la storia dell’incontro tra Rabbi Yosi e il profeta Elia in mezzo alle rovine del Tempio di Gerusalemme. Quando Rabbi Yosi ebbe finito di pregare, Elia gli chiese:
“Figlio mio, quale suono senti in mezzo a queste rovine?” Egli ripose: “Una voce divina (bat kol) che dice: Guai a me perché ho distrutto la Mia casa e ho bruciato il Mio Tempio e ho mandato in esilio i Miei figli…” (Babylonian Talmud, Berakhot (3a).[4]
Rabbi Shapiro usava questo midrash per pronunziare parole di consolazione per la sua gente. Attualizzandolo nel contesto della situazione che vivevano allora gli ebrei, diceva loro
“Ora l’israelita che è tormentato dal dolore pensa che lui solo soffra…ma la nostra letteratura sacra ci dice che quando un israelita soffre, Dio, Sia Benedetto, soffre, per così dire, molto più di quanto faccia la persona”.[5]
Il tema della sofferenza di Dio, del Suo coinvolgimento e della Sua preoccupazione per il destino di Israele, ha avuto un ruolo importante nella letteratura rabbinica. Come osserva Cohen, la distruzione del Secondo Tempio e la devastazione di Gerusalemme nel 70 dell’era volgare furono le più grandi catastrofi nella vita degli ebrei di quel tempo e posero il problema di come spiegarle. I Rabbini elaborarono differenti risposte e, tra queste, quella che insisteva sulla giustizia di Dio che aveva punito il Suo popolo a causa dei peccati di Israele con la distruzione del Tempio, l’esilio del popolo ebraico dalla loro terra e con il rifiuto di abitare in mezzo a loro. Questo comportamento di Dio verso il Suo popolo fu chiamato dai Rabbini “Histalkut ha-Shekinah”, “l’allontanamento della presenza di Dio”.[6]Ma, commenta di nuovo Cohen, la tradizione di un Dio che possa semplicemente abbandonare il Suo popolo, senza curarsi della sua situazione disperata, è inconcepibile.[7] I Rabbini crearono quindi una risposta differente con l’idea del lamento o pianto di Dio: in numerosi passi del midrash Dio fu descritto mentre piangeva sul Tempio distrutto ed esprimeva il Suo dolore per il destino del Suo popolo.[8]
Durante il Medio Evo questo concetto fu rimosso, eliminato o censurato perché trasmetteva una concezione antropomorfica di Dio.[9] Durante la sua permanenza nel ghetto e in una situazione di estrema sofferenza per il suo popolo, Rabbi Shapira reintrodusse e fece progredire l’idea del pianto di Dio attraversi altri splendidi passi midrashici. In un poema, Dio piange per la distruzione del Tempio e l’Angelo, il Suo messaggero, gli dice::
“Sovrano dell’Universo, lascia piangere me, ma Tu non piangere”. Dio replicò all’Angelo: “Se tu non vuoi sapere, andrò in un luogo dove tu non hai il permesso di entrare e piangerò lì” (Midrash Lamentations Rabbah).[10]
Nella visione dell’Angelo, Dio non dovrebbe piangere, spiegava Rabbi Shapira, “perché la Sua sofferenza, per così dire, è senza confini e più grande di tutto il mondo – e per questo non è mai penetrata nel mondo e non dovrebbe farlo …una volta che il suono del pianto divino fosse sentito nel mondo, il mondo sentirebbe ed esploderebbe”.[11]
Nel trattato talmudico Hagigah (5b)[12], il luogo nel quale Dio piange sono le camere interne del cielo che, secondo Shapira, si riferiscono ad una condizione di binah, nella quale è possibile la domanda, ma non la conoscenza, in quanto essa supera la comprensione”. La sofferenza di Dio è, per così dire, [13]nascosta agli occhi dell’Angelo e del mondo”.[14]
La nozione della grandezza della Divina Sofferenza è così trasformata nell’assenza di una risposta Divina visibile e richiama il concetto di hester panim, il Nascondimento Divino. Allo stesso tempo è all’origine di nuove domande e nuove risposte da parte dei Rabbini che si chiedevano, ad esempio, se l’isolamento di Dio significasse anche assenza di Dio. In una discussione sulla catastrofe della distruzione del Tempio di Gerusalemme, i maestri di Israele citano il verso del Salmo 89,9 “Chi è potente come Te, o Eterno ?”. Il commento midrashico di Abba Hanan spiega:
“Chi è così potente e forte come Te, capace di ascoltare i tormenti e gli insulti dell’uomo malvagio (Tito) e rimane in silenzio?”. La Casa di Rabbi Ysmael cita un altro verso della Bibbia (Es 15,8): “Chi è come Te, o Eterno, fra gli dèi”, ma sostituisce l’ebraico Elim con Ilmin leggendo: “Chi è come te, o Eterno, tra i silenti”? (Talmud Babli Gittin 56 b).[15]
Per Rabbi Shapiro, il nascondimento e il silenzio di Dio non sono dovuti alla Sua indifferenza o trascendenza assoluta, ma sono “un risultato della profondità e dell’intensità del Suo coinvolgimento nel destino di Israele”.[16]Nel sermone del 14 Marzo 1942, Shapira offre una possibilità per l’individuo che ha “dubbi su sé stesso”, la persona che si tormenta, che è confusa in sé stessa. Questa persona, che si trova in una situazione di estrema sofferenza, può spingersi e giungere più vicino a LUI mediante lo studio della Torah, piangere con Dio e studiare la Torah con Lui.[17]Per quest’uomo, il pianto che fa con Dio può costituire una sorgente di un forte rinnovamento per compiere il servizio divino.[18]
2. Hester Panim
Durante il periodo post-Olocausto, emersero, nel contesto dell’insegnamento rabbinico, ulteriori riflessioni teologiche e filosofiche, con approcci e sviluppi differenti dell’ hester panim. Secondo Berkovitz, Talmud Babli Gittin 56 è una esclamazione “Dio, tu sei muto: tu non compari nella storia.”[19] Inoltre, osserva come nella Bibbia il “Nascondimento del Volto” ha due significati: giudizio e punizione,[20] ma come è anche associato, in Is 45,15 all’auto-rivelazione di Dio come Salvatore.[21]
Perciò, egli si chiede, come è possibile collegare questi due attributi: Nascosto e Salvatore? A suo parere, un passo del Talmud (Babli Hagigà 15 a)[22]contribuisce a una migliore comprensione del secondo significato del Nascondimento del Volto. In esso, Rabbi Meir and Aher[23] hanno una discussione sulla presenza del male sulla terra. Soggetto della discussione è il principio dialettico che è visto come principio della creazione: qualunque cosa Dio ha creato, ha anche creato il suo opposto. Rabby Meir esprime questo in termini generali (per esempio montagne e colline, oceani e fiumi), mentre Aher si riferisce all’affermazione di Rabbi Akiba: “Dio ha creato il giusto e ha creato l’empio ”, dando alla frase un’applicazione etica (il giusto e l’empio, il bene e il male). Per Aher, bene e male sono assoluti e il creatore è responsabile di ambedue.[24]Comunque, per Berkovitz, l’affermazione di Rabbi Akiba non vuol dire che Dio crea bene e male in un modo indifferente, ma semplicemente esprime la dialettica della creazione in termini etici. Dio non determina in anticipo che una persona sia un Sadiq un’altra un Rasha, “Dio crea l’una e l’altra possibilità per l’uomo, essere un Sadiq o essere un Rasha”.[25] Dio non crea il male, ma la sua possibilità, così come crea la possibilità per il suo opposto: pace, bontà, amore. Proprio perché un uomo deve avere libertà di scelta e libertà di decisione, se egli decide per l’alternativa sbagliata, ci sarà sofferenza per l’innocente.[26]Dio deve essere assente dalla storia allo scopo di rispettare la libertà di decisione dell’uomo. Questo spiega la necessità dell’assenza, cioè del “Nascondimento del Volto”.[27] Per Berkovitz, hester panim manifesta la presenza-assenza di Dio, per la salvezza della libertà dell’uomo.
Considerando ancora l’approccio midrashico al problema della presenza di Dio nella storia Fackenheim sceglie una prospettiva completamente differente. In Mekhilta de-Rabbi Ishmael II, 24 ss., Rabbi Eliezer afferma che ciò che Ezechiede vide una volta nel cielo
“fu molto meno di ciò che tutto Israele vide una volta sulla terra”. Infatti al Mar Rosso (Es 15,2), “perfino il più umile servitore vide ciò che Isaia, Ezechiele e tutti gli altri profeti non videro mai”.[28]
Secondo Fackenheim, questo midrash riconosce la presenza di Dio nella storia, affermando che non i messaggeri, non gli angeli, non gli intermediari, ma Dio stesso agisce nella storia umana ed è presente a tutto il popolo. Inoltre, ciò che tutto il popolo ha visto come un evento storico “si ripercuote in modo decisivo su ogni generazione futura di ebreo”.[29] Attraverso l’evento storico del Mar Rosso, ogni ebreo ha sperimentato la presenza di Dio come suo Salvatore. Ma, secondo un midrash, anche al Sinai tutto il popolo vide ciò che Ezechiele e gli altri profeti non videro mai, anche se la loro esperienza di Dio fu differente.
Rabbi Azaryah e Rabbi Aha, in nome di Rabbi Yohanan, commentando il passo di Dt 5,24: “Se continuiamo a udire ancora la voce…moriremo”, narra che,
“mentre le anime degli israeliti li abbandonavano, la Parola ritornò da Dio dicendo: “Sovrano dell’Universo, Tu sei pieno di vita e la Tua legge è piena di vita, e hai mandato me a morire poiché essi sono tutti morti”. Quindi il Santo, sia benedetto, addolcì [cioè, placò) la Parola per loro”. (Midrash Rabbah, Song of Songs, V, 16).[30]
Secondo Fackenheim, al Sinai gli israeliti sperimentarono uno stupore umano che ebbe un duplice aspetto. Il primo, che è terrore di fronte alla Presenza divina e imperiosa, si trasforma in un secondo stupore che è gioia, di fronte alla Grazia che ripristina ed esalta la libertà umana dalla sua imperiosa Presenza”.[31] Inoltre, questa esperienza di Dio nella storia rivela contraddizioni dialettiche in sé stesse: tra la trascendenza divina e l’intervento divino, il Potere divino e la libertà dell’uomo e tra il coinvolgimento divino con la storia e l’esistenza del male in essa”[32]: anche queste contraddizioni sono espresse nei midrashim, ma non risolte.[33]
Durante gli eventi catastrofici della distruzione del Tempio (70 e.c.) e la trasformazione di Gerusalemme in una città pagana (135 e.c.) nella quale, come lamentava Rabbi Eliezer:
“Le porte della preghiera erano chiuse e solo quelle delle lacrime erano ancora aperte” (Bab.Talmud, Tractate Berakhot 32b),[34]
i Rabbini cominciarono ad elaborare alcune linee di risposte e, tra queste, come abbiamo visto, la concezione dell’auto-nascondimento divino (hester panim). Fu tuttavia questa, come sostiene Fackeheim,un’idea solo parziale e temporanea perché, secondo la sua prospettiva, se i Rabbini si fossero fermati solo a questa risposta” avrebbero perduto la Presenza divina nella storia”.[35]La teologia di Rabbi Akiba creò così la figura della Shekinah in esilio (Mekhilta I,114)[36], secondo cui gli ebrei sarebbero stati in esilio ma non esclusi dalla divina Presenza perché anche Dio era in esilio con il suo popolo. Un Dio in esilio “ancora conforta perché offrela speranza di una salvezza futura attraverso il ricordo dei suoi atti salvifici”.[37] Secondo Polen, l’idea dell’esilio ha chiaramente spostato l’enfasi dalla sofferenza umana alle sofferenze divine.[38]
3. Kiddush Hashem
Nel suo sermone dell’11 luglio del 1942, Rabbi Shapira parlò non solo di un Dio che “proprio soffre con noi” le stesse nostre sofferenze, ma aggiunse: “Ci sono, comunque, alcune sofferenze che noi proprio soffriamo accanto a Lui, per così dure. Sono le sofferenze di Kiddush Hashem”.[39]
Il termine ‘Kiddush ha-Shem’, ‘Santificazione del Nome Divino’, è evocato in modo tipico per mettere a fuoco le conseguenze del martirio[40], una posizione che tuttavia alcuni contestano. Fackenheim osserva come il midrash trasfiguri la storia del sacrificio di Abramo in quella del martirio di Isacco, un uomo di 37 anni, che volle il martirio per il Kiddush ha-Shem.[41] Fackenheim osserva anche come l’interpretazione midrashica continuò ad essere viva nella coscienza religiosa ebraica e venne usata anche nel periodo medioevale delle Crociate per sostenere gli innumerevoli martiri. Comunque questi martiri, così come i martiri di Auschwitz, non hanno scelta, perciò: “Ci può essere un martirio dove non c’è scelta?” e anche: “Ma potevano (e lo fecero) gli ebrei scegliere la fede sotto la morte?”[42]Con riferimento al Kiddush ha-Shem, Fackenheim riconosce ancora l’antica interpretazione biblica degli eventi catastrofici “per i nostri peccati siamo stati puniti” ma, nel suo pensiero questa dottrina, se considerata una risposta ad Auschwitz, “diviene una assurdità religiosa e persino un sacrilegio”.[43]
Secondo Polen, Rabbi Shapira, impiegando l’espressione ‘yissurin shel Kiddush ha Shem’, cioè, ‘le sofferenze di Kiddush ha-Shem’, pone l’enfasi non sulle conseguenze del martirio o sulla sua orgine, perché “le sofferenze di Israele e il martirio sono il risultato della sua identificazione con la causa divina e la sua partecipazione alla Sua sofferenza”.[44]Anche se Rabbi Shapira continua in modo esplicito a condividere la comprensione tradizionale delle sofferenze come espiazione per i peccati, in questo caso la tipologia tradizionale gli sembra inadeguata. Il Rabbino attraverso la figura del Servo Sofferente di Isaia, suggerisce che “la sofferenza di Israele è radicata nel suo portare il fardello di Dio”.[45]Gli eventi accaduti dal 1939 in poi non sono dovuti a un peccato, ma piuttosto, ciò che accadde, fu la conseguenza di un attacco contro Dio. “La sofferenza di Israele è subordinata a questo”.[46] Nelle loro sofferenze, gli ebrei hanno fatto un Kiddush Hashem, ma non per il loro martirio, semplicemente per la loro identificazione con Dio.
Un ulteriore approfondimento del concetto di Kiddush ha-Shem ci giunge dall’interpretazione di Berkovitz. Come suggerisce il filosofo, l’esempio classico del martirio ebraico è il modo in cui morì Rabbi Akiba.[47] Quando fu catturato dai soldati ed era già sotto sentenza di morte, decise di morire compiendo il precetto religioso di recitare lo Sh’ma:
“Egli prolungò la pronuncia di EHAD e rese l’anima mentre completava con “Ascolta, o Israele” (Talmud Babli, Berakhot 61 b).[48]
Questo passo del Talmud ha suscitato valutazioni e attualizzazioni diverse riguardo al suo significato. Per Berkovitz, il Kiddush ha-Shem of Rabbi Akiba consiste nel suo abbandono radical a un Dio che è silente, che nasconde il suo volto, che lo ha abbandonato.[49] Berkovitz considera anche un aspetto differente: la storia del martirio di Rabbi Akiba è introdotta dalle parole “era l’ora della recita quotidiana dello Sh’ma”. Nella storia della morte di Rabbi Akiba, il Kiddush ha-Shem “non è un atto eroico conclusivo di affermazione, ma è forse una forma di comportamento e di condotta quotidiana”.[50]Come Akiba, sottolinea Berkovitz, anche gli ebrei nei campi non avevano una scelta; come Akiba, molti ebrei nel ghetto e nei campi di morte mostrarono la loro forma di Kiddush ha-Shem.[51]
Conclusione
Dove era Dio ad Auschwitz? Abbiamo visto differenti risposte nelle interpretazioni midrashiche dei Rabbini dei maggiori eventi del loro tempo: il passaggio del Mar Rosso, la Rivelazione al Sinai e, particolarmente rilevanti, sono state le risposte nate dalla riflessione sulla distruzione del Tempio di Gerusalemme. Attualizzandole, si potrebbe rispondere alla domanda d’inizio, che Dio piangeva nei ghetto, nei campi di morte; Dio nascondeva il suo volto; Dio era la Shekinah, che andò in esilio con il suo popolo ad Auschwitz. Tutte queste risposte affermano e confermano la presenza di Dio nella storia ma, allo stesso tempo, non risolvono i problemi, le contraddizioni nella Storia della Salvezza di Dio..
Considerando il contesto rabbinico, Fackenheim osserva come “Da un punto di vista negativo, il pensiero teologico ebraico si oppone alla dissipazione delle esperienze che sono alla radice dell’Ebraismo; da un punto di vista positivo mira alla loro preservazione”.[52] In particolare pone l’accento su cinque caratteristiche del pensiero midrashico, che hanno la premessa nell’affermazione, già citata, che esso “non può risolvere le contraddizioni radicate nelle esperienze dell’ebraismo, ma solo esprimerle”.[53]La quarta caratteristica esprime pienamente la sua natura, attraverso l’elencazione dei seguenti elementi: a) è pienamente consapevole delle contraddizioni espresse; b) è pienamente determinato nel lasciarle irrisolte; è consapevolmente frammentario; d) è insistente sul fatto che questa frammentarietà è definitiva per il pensiero umano e anche destinataa una risoluzione definitiva”.[54] Secondo la prospettiva di Fackenheim, il Midrash, anche quando è proiettato nel mondo moderno “rimane normativo fino ad oggi per il teologo ebreo”,[55] in quanto, anche nella catastrofe presente, i Rabbini sono rimasti “tenaci testimoni alle nazioni che tutta la storia ha bisogno di redenzione ed è destinata a riceverla ”.[56]
In questo senso, la conclusione di questo breve lavoro si richiama all’esperienza di Halivni, studioso famoso di Talmud che visse anche la dura esperienza del ghetto e dei campi di morte. Nel suo libro, dal titolo The sword and the book, (La spade e il libro) egli racconta la sua vita nel ghetto e dice: : “Il fatto che non ci fossero libri in realtà non fu un ostacolo. Avevo imparato abbastanza per continuare a studiare nella mia mente.[57]
Le parole di Halivni richiamano un altro concetto ebraico: il ‘Kiddush ha-Hayyim’, ‘La Santificazione della Vita’. Nel ghetto di Varsavia, Rabbi Isaac Nisselbaum insegnava che “la più alta forma di resistenza era restare attaccato alla vita con tutta la nostra energia”.[58] La comunità religiosa cercò in ogni modo di preservare e di promuovere la vita spirituale dell’ebraismo. Anche se la preghiera pubblica, la Shehita (la macellazione kosher) e le ritualità ebraiche erano proibite, venivano tenuti in segreto. Nel Kiddush ha-Hayyim fu particolarmente importante lo studio della Torah: migliaia di bambini studiavano la Torah in scuole elementari clandestine, centinaia di studenti della yeshivà continuarono a studiare (come Halivni) il Talmud.[59] All’inizio del libro, Halivni cita un triste midrash::
“Fu decretato per Israele che essi studiassero parole della Torah nel dolore, nella schiavitù, nella peregrinazione e nell’incertezza, soffrendo per la mancanza di cibo” (Midrash Eliyahu Rabbah, 21).[60]
Tuttavia Halivni racconta che tutto cambiò il 14 Maggio 1944 quando lui e la sua famiglia furono portati dal ghetto ai campi: “Perdetti la mia casa e la mia vita immaginativa si fermò. Smisi di imparare”.[61]Alla fine del libro, Halivni discute anche le differenti risposte all’Olocausto. A suo parere, c’è un’unica risposta: “Ci sono eventi nella storia, come la Rivelazione per il credente, che esistono senza spiegazione; ma essi esistono”.[62] Riferendosi alla storia di Mosè nell’Esodo, quando chiese a Dio: “Mostrami, ti prego, la tua Gloria”, cioè l’onore di Dio, il suo essere, i suoi secreti e Dio rifiutò dicendo: “Tu non puoi vedere il mio volto, perché un uomo non può vedermi e vivere” (Es 33, 13.14.18), Halivni commenta: “Possiamo conoscere le vie di Dio, ma non le ragioni di Dio”.[63]
[1]Vedi E. Fackenheim, ‘Jewish Faith and The Holocaust. A Fragment’, in M. L. Morgan, A Holocaust Reader. Responses to the Nazi Extermination, Oxford University Press, 2001, p. 119.
[2]N. Polen, Esh Kodesh: the Teachings of Rabbi Kalonymous Shapiro in the Warsaw Ghetto, 1939-1943, Ph.D. Dissertation, Boston University, 1983, p. 503.
[3]VediN. Polen, ‘Divine Weeping: Rabbi Kalonymous Shapiro’s Theology on Catastrophe in the Warsaw Ghetto’, Modern Judaism 7/3 (1987), p. 253.
[4]Rabbi Kolonymous Shapira,’Fire of Holiness’, in D. Roskies ed. The Literature of the Destruction: Jewish Response to Catastrophe, Jewish Publication Society, 1989, p. 506.
[5]Ibidem.
[6]Vedi A. Cohen, ‘Skekhinta Ba-Galuta: a Midrashic Response to Destruction and Persecution’, JSJ 13 (1982), p. 147. Questa idea della punizione divina fu anche una delle risposte teologiche all’Olocausto. In un libro pubblicato poco dopo la fondazione dello Stato di Israele (Vayo’el Moshe, And It Pleased Moses), Rabbi Yoel Taitelbaum, leader di un movimento ultra-ortodosso, anti-sionista, conosciuto come “I Guardiani della Città”, dichiarava che l’Olocausto era stato una punizione per il seguente peccato del popolo “la trasgressione del monito divino a non cercare la redenzione con i propri mezzi, attraverso una iniziativa umana”, vediA. Funkenstein, ‘Theological Responses to the Holocaust’, in Unanswered Questions, F. Funt ed., 1985, p. 307.
[7] ‘Skekhinta Ba-Galuta’, p. 148.
[8] Ibidem.
[9]Fire of Holiness, p. 504. See also N. Polen, ‘Divine Weeping:, p. 255.
[10]Fire of Holiness, p. 507.
[11]Ibidem.
[12]Ibidem.
[13] “per così dire (k’b’yakhol)” è un termine tecnico che significa “da un lato, che l’affermazione in questione non è vera alla lettera, ma è solo un modo umano di parlare e , dall’altro, che è tuttavia una verità che non può essere trascesa dal punto di vista umano”, vedi E. Fackenheim, God’s Presence in History, New York 1970, p. 24.
[14]Fire of Holiness, p. 508.
[15]E. Berkovitz, Faith after the Holocaust, Ktav Publishing House, New York 1973, pp. 93-94; p. 173 note 12.
[16]Polen, ‘Divine Weeping, p. 256.
[17]Fire of Holiness, p. 508..
[18]Ibidem, p. 504..
[19]Faith after the Holocaust, Ktav Publishing House, New York 1973, p. 94.
[20]Ibidem.
[21]Ibidem, p. 101.
[22]Ibidem, p. 102.
[23]Elisha ben Abuyah, who was teacher of the great Rabbi Meir, lost his faith and became Aher, a changed person, see Berkovitz, Faith after the Holocaust, p. 97.
[24] Ibidem, p. 103.
[25] Ibidem, p. 104.
[26] Ibidem, pp. 105-106.
[27]Ibidem, p. 107.
[28]E. Fackenheim, God’s Presence in History, p. 4. Vedi anche p. 31 note 1.
[29]Ibidem, p. 10. Vedi anche pp. 9-14.
[30]Ibidem, p. 15. Vedi anche p. 32 nota 17.
[31]Ibidem, p. 16.
[32]Ibidem, p. 17.
[33]Fackenheim, God’s Presence in History, pp. 21-22 cita due esempi nella Mekhilta di-Rabbi Ishmael. Il primo è un commento a Es 15,3 dove si dice che Dio si manifesta in modo differente a seconda delle esigenze del momento storico e che si manifesta in ogni momento come l’unico solo Potere di ogni momento. Dio è rappresentato come “Colui che fu nel passato e che sarà nel futuro…Nel secondo esempio, da un commento a Es 15,12, l’universalità del solo Potere richiede, in modo simile, un riconoscimento umano universale della sua universalità”.
[34] Vedi Ibidem, p. 27 e p. 33 nota 43.
[35] Ibidem p. 27.
[36] Ibidem, p. 28 e p. 33 nota 47.
[37] Ibidem, p. 29.
[38]‘Divine Weeping’, p. 258.
[39]Fire of Holiness, p. 504.
[40]Polen, ‘Divine Weeping, p. 259.
[41]Fackenheim, God’s Presence in History, p. 74.
[42]Ibidem.
[43]Ibidem, p. 73.
[44]Polen, ‘Divine Weeping, p. 259.
[45]Ibidem.
[46]Ibidem.
[47]Faith after the Holocaust, p. 80.
[48] Ehad significa “uno” ed è l’ultimo versi di “Ascolta, Israele”. VediBerkovitz, Ibidem, p. 80 e p. 173 note 17.
[49]Faith after the Holocaust, p. 81.
[50]Ibidem, p. 83.
[51]Berkovitz, Faith after the Holocaust, p. 84.
[52]Fackenheim, God’s Presence in History, p. 20
[53]Ibidem.
[54] Ibidem.
[55] Ibidem.
[56]Ibidem, p. 29.
[57]D. Weiss Halivni, The Book and the Sword. A Life of Learning in the Shadow of Destruction, Westview Press 1988, p. 46.
[58]N. Polen, ‘Cultural and Religious Life in the Warsaw Ghetto’, Dignity & Defiance. The Confrontation of Life and Death in the Warsaw Ghetto, see htpp://motlc.wiesenthal.com/site/pp.asp?c=ivKVLcMVIsG&b=476145, p. 1.
[59] Ibidem.
[60]See Halivni, The Book and the Sword, at the beginning of the book.
[61]The Book and the Sword, p. 47.
[62] Ibidem, p. 155.
[63]The Book and the Sword, p. 156.
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