Articolo: Il segno di Lazzaro (Gv 11,1-45)

05/02/2013     Ombretta Pisano     7590

Il racconto del "risveglio" di Lazzaro rappresenta uno snodo decisivo per l'intera narrazione giovannea come per la vicenda terrena di Gesù. Dopo i diversi tentativi da parte delle autorità di Gerusalemme di eliminarlo (in seguito alla dichiarazione solenne nell'ultimo giorno della festa delle Capanne in 7,44 e dopo l'autoproclamazione in 8,58 e 10,30.38) questo episodio sanziona il progetto sistematico di eliminazione di Gesù. Per questa ragione il racconto, posto narrativamente subito prima dell'unzione a Betania, con essa precede ed  apre la sezione che inizia al capitolo 13 e che gli studiosi sono soliti indicare come 'libro dell'Ora' della passione/resurrezione di Cristo.

Sarebbe tuttavia riduttivo considerare questo brano solo come l'ultimo dei segni prima della narrazione degli eventi e dei discorsi della passione. In realtà esso, in quanto 'segno', si pone all'attenzione del lettore come un evento che viene operato con un intento preciso. Cerchiamo allora di capire qual è questo intento e, attraverso l'analisi dei personaggi, delle reazioni e delle loro parole, di cogliere ciò che il segno dice.

Collochiamoci prima di tutto nello spazio del racconto e nelle sue circostanze. Minacciato di morte, Gesù lascia Gerusalemme per recarsi al di là del Giordano, dove Giovanni Battista battezzava. L'evangelista ci rimanda indietro agli inizi del ministero di Gesù e al ministero del Battista, ed in particolare (si noti la simile fraseologia) a 1,28 in cui il Battista afferma la superiorità di Gesù e fa la sua professione di fede in lui come Figlio di Dio. Qui in 10,40-41 l'evangelista colloca una folla che riconosce veritiera la testimonianza del Battista e che la riafferma: «e in quel luogo molti credettero in lui», a differenza di quanto accadeva a Gerusalemme, che appare piuttosto come il luogo dell'incredulità.

E' qui, oltre il Giordano, che Gesù riceve la notizia della malattia di Lazzaro. L'evangelista dà qualche notizia sulla sua famiglia, diremmo a mò di 'nota redazionale', soffermandosi brevemente ma significativamente su Lazzaro, e su Maria. Nei riguardi del primo Giovanni usa un'espressione forte nel v.3: si tratta di «colui che tu ami». I verbi con cui Giovanni esprime il sentimento che lega Gesù a Lazzaro, Marta e Maria, sono ripetuti tre volte nel brano (vv. 3. 5. 36). Ciò dà l'idea della profondità di questo legame affettivo, dettaglio importante per spiegare la portata dell'intervento successivo di Gesù. Tra le due sorelle, Maria sembra già nota all'uditorio di Giovanni («era quella che…»), che qui sembra inserire l'informazione a posteriori. In effetti, in 12,3 Maria è la protagonista principale del quadro dedicato all'unzione di Betania, episodio che fa da inclusione con l'inizio del nostro brano e che ne rappresenta la continuazione e la conclusione. Il gesto di Maria in quella occasione sarà letto da Gesù come un segno della sua unzione funebre. Di fatto, vi sono dei richiami significativi al racconto della morte e resurrezione di Gesù nei capitoli 19 e 20. Qui ci preme evidenziare come l'annotazione relativa a Maria, con la quale Giovanni richiama un episodio di cui riferirà i particolari nel successivo capitolo 12, posta all'inizio del racconto su Lazzaro, lo inquadra nella prospettiva della morte di Gesù e lo lega a questa in un modo che il racconto svelerà progressivamente.

Gesù dunque è raggiunto dalla notizia che Lazzaro è gravemente malato. La risposta di Gesù alla notizia, ci ricollega ad un'altra situazione simile: in 9,1-5 la cecità del cieco nato, sulla quale si discute se sia o no segno di peccato, offre a Gesù la stessa occasione per dimostrare che essa è in realtà per la gloria di Dio.  Allo stesso modo anche la malattia di Lazzaro. Tuttavia qui il testo sembra indicare che la morte non sarà l'epilogo della malattia («questa malattia non è per la morte…»). Se seguiamo il testo su questo livello possiamo giustificare l'atteggiamento temporeggiatore di Gesù, che non si muove da lì perché conosce l'esito positivo finale. In realtà, secondo lo stile tipico di Giovanni di svelare progressivamente più livelli di comprensione delle parole di Gesù, si vedrà che la morte non va intesa solo in senso fisico e che Gesù interviene su un altro tipo di morte. E' un salto che è necessario fare per capire fino in fondo il suo dono, il suo insegnamento, la sua identità.

Subito dopo, a dispetto dei tentativi di lapidazione di cui era stato fatto oggetto a Gerusalemme, Gesù decide repentinamente di tornare in Giudea. La Betania dove abita Lazzaro, come esplicita il testo al v. 18, si trova a 15 stadi (l'equivalente di circa tre chilometri) da Gerusalemme. E' pericolosamente vicina! Ma all'obiezione dei discepoli Gesù risponde con un'espressione che si comprende se letta ancora in parallelo con l'episodio del cieco nato (9,5): come in quell'occasione, anche qui le ore del giorno rappresentano il tempo in cui Gesù, ancora vivo, non può non operare nel mondo per portarvi la salvezza. Per questo, e soprattutto per l'amore che lo lega al suo amico, egli torna indietro rischiando la vita.

Le parole con cui Gesù motiva la sua partenza al v. 11 sono ancora una volta parole che si prestano all'equivoco e che necessitano di una comprensione spinta ad un livello superiore a quello letterale. I discepoli inciampano in questo equivoco e ciò offre a Gesù lo spunto per spiegare chiaramente a cosa egli si riferisce. Egli non si sta riferendo al 'dormire del sonno' ma alla morte. Ciò mette in chiaro che Lazzaro non si trova nella situazione di chi dorme, ma nella situazione di uno che, essendo veramente morto, può essere salvato solo da un intervento divino. Il risveglio che Gesù vuole operare, infatti, sarà proprio ciò che consentirà ai discepoli di credere in lui come a colui che dà la vita. In questa prospettiva la gioia di suscitare nei discepoli una fede nuova supera la pena per la morte dell'amico e Gesù, arrivato al momento di attuare il segno, si muove sollecitamente verso Lazzaro, che ormai è morto. Il lettore si trova sconcertato nel vedere un simile atteggiamento in Gesù, passivo nel momento del bisogno e sollecito quando ormai il peggio è accaduto e non serve più il suo intervento. Colpisce soprattutto che Gesù si rivolga ancora a Lazzaro considerandolo come un soggetto vivente: «è morto…andiamo da lui!».

Da questo necessario preambolo dei vv. 1-16 si evincono almeno due motivazioni all'agire di Gesù, essenziali per comprendere il seguito del racconto: suscitare la fede nella sua persona e agire per amore nei confronti dell'amico a rischio della vita. In quest'ottica si comprende bene l'atteggiamento apparentemente paradossale di Gesù, che ha aspettato che si consumasse fino in fondo la morte di Lazzaro per intervenire ed ha gioito intimamente per il beneficio che i suoi discepoli avrebbero tratto dalla sua lontananza.

Il salto verso una più profonda qualità di fede nella sua persona è l'obiettivo che Gesù persegue anche nei confronti delle due sorelle, Marta e Maria, anch'esse oggetto del suo amore (cf. v. 5). Come testimoni del segno insieme ai discepoli e ai giudei che erano andati a fare il lamento insieme a loro, esse sono rappresentate nel loro atteggiamento nei confronti del Signore. Giovanni si sofferma sulla loro fede prima del miracolo, mentre non si preoccupa di riferire la loro reazione dopo il prodigio. Vediamo quali rilievi emergono dal modo in cui Giovanni presenta la fede delle due sorelle.

Arrivato a Betania, Gesù trova Lazzaro sepolto da quattro giorni, tanti giudei amici e conoscenti, Marta e Maria, la prima che gli va incontro e la seconda che resta in casa insieme agli ospiti. Forse Giovanni si sofferma su questo particolare riguardante Maria anche per sottendere un atteggiamento diverso, più attivo l'uno e più 'di attesa' l'altro. Mentre infatti Marta va personalmente incontro a Gesù, Maria aspetta che sia lui stesso a chiamarla. Si tratta di due atteggiamenti diversi davanti all'evento sconvolgente, che però non pregiudicano il contatto con Gesù. Il silenzio di Maria è compreso in pieno da lui come segno dell'attesa di vere parole di senso in una situazione ormai disperata; per questo vuole incontrare anche lei.

La prima frase che Marta e Maria pronunciano è la stessa, la più spontanea in quel frangente: «Signore, se tu fossi stato qui…» (vv. 21. 32). Questa frase esprime una fede che, generata da una non superficiale conoscenza del Signore (di Maria Giovanni dice che «appena lo vide cadde ai suoi piedi dicendo: Signore…», una fraseologia ed un uso dei termini tipico delle confessioni di fede, simile a quella del cieco guarito in 9,38) e il suo potere di fare miracoli con la forza della sua parola, si aspettava una salvezza che consiste nel risparmiare dalla morte. Anche in Marta abita questo tipo di fede, la cui genuinità, scevra da ogni concezione magica e miracolistica, è mostrata dalla fiducia nell'intimità che Gesù ha con Dio («anche adesso so che tutto quello che chiederai a Dio, Dio te lo darà», v. 22). Giovanni ci mette davanti un modello di fede profondo, ma che necessita ancora di un salto, un salto che è possibile fare solo insieme a Dio stesso, per sua iniziativa e con la sua spinta, ma che deve superare la soglia della consumazione di morte.

E' questa spinta che Gesù è venuto ad offrire. Secondo il modo tipico di Giovanni di trasmettere un insegnamento di Gesù, egli fa iniziare il dialogo con un'affermazione che può essere spiegata in più modi («tuo fratello risusciterà», v. 23) e che solo nel corso del confronto emerge in tutta la sua profondità di significato. Marta risponde a questa prima affermazione di Gesù con tutta la mesta rassegnazione di chi vede deluse le sue ultime aspettative e le proietta in un futuro che le sfugge, ma proprio davanti alla coscienza dell'inevitabile contro cui vanno a scontrarsi tutte le speranze umane, davanti al verdetto supremo dell'impotenza umana che è la morte, Gesù afferma, nella sua persona, la sconvolgente, inaudita vicinanza dell'opportunità della vita, qui e adesso: «Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai» (vv. 25-26). Questa è l'opportunità che Gesù è non solo per Lazzaro, non solo per Marta, Maria ed i giudei, ma per ogni credente di ogni tempo. La sola discriminante è credere che nella persona di Gesù questa possibilità è presente e reale. In chi crede così, la vita è già eterna e la morte fisica non è altro che un passaggio verso un modo diverso di continuare a vivere. Marta che risponde con la professione di fede, rappresenta la credente di cui Giovanni parla alla fine del suo Vangelo ed in cui i 'segni' operati da Gesù hanno raggiunto lo scopo per cui sono stati fatti: «Questi (segni) sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,31). Si può forse dedurre che anche lo stesso Lazzaro, credente come lei e come tutta la famiglia, abbia già in se la vita nel senso inteso da Gesù. Nella prospettiva di Gesù – e del credente in Gesù - egli non è morto, ma 'dorme'.

Vista così, la rianimazione fisica del corpo, quello di Lazzaro, che tornerà, un giorno, a morire, relativizza la componente di 'risveglio' nell'evento. Esso non è che un 'segno' dato per rimandare ad una realtà molto più sconvolgente: al dono della certezza della vita eterna, della presenza vivificante di Dio che ama senza mai cessare di donare la vita. Solo questo dono è tanto alto da mostrare che valeva la pena aspettare che Lazzaro morisse, che fosse sepolto, che una pietra sigillasse il suo sepolcro e che addirittura iniziasse il suo processo di decomposizione.

Si tratta però di una prospettiva che non possiedono ancora i personaggi del racconto, né i lettori, perché la narrazione continua a tenerci in sospeso. Tutta l'attenzione è ora concentrata su Gesù. Al vedere Gesù, Maria ripete lo stesso sottile rimprovero che gli ha rivolto Marta. Ma il pianto di lei sostituisce la forte affermazione di affidamento della sorella. Davanti a questo pianto e a questo dolore al quale non sono più rimaste parole Gesù 'freme' e si 'turba' (v. 33). Il primo verbo è piuttosto raro nel Nuovo Testamento, ed ha il senso di 'ammonire, rimproverare, intimare'[1]. In due casi (Mc 1,44 e Mt 9,30) essi sono pronunciati da Gesù dopo un miracolo come raccomandazione di non dire niente a nessuno. Nel caso di Mc 14,15, il racconto marciano dell'unzione di Betania, esprime il rimprovero fatto da alcuni alla donna ruppe il vasetto di unguento spargendolo sul capo di Gesù. Per comprendere il senso dell'espressione che troviamo qui in Gv 11,33, dobbiamo considerare che essa è accompagnata dal carattere interiore della reazione di Gesù. Probabilmente si tratta di un rimprovero trattenuto, provocato dall'atteggiamento di chiusura e di incomprensione da parte di chi assiste in quel momento. Questa interpretazione è rafforzata dalla presenza del secondo verbo, che esprime un fastidioso disagio, e ancor di più dalle parole in seguito espresse dai giudei i quali riconoscono il grande amore di Gesù per l'amico dal suo pianto («guarda come l'amava», v. 36) ma si indignano per il mancato ricorso da parte di Gesù alle sue facoltà per risparmiargli la morte (v. 37). Questo atteggiamento provoca in lui un nuovo moto di frustrazione (v. 38) che però egli tiene per se nella prospettiva della fede rinnovata che il suo intervento sta per inaugurare nei testimoni. Il quadro dei personaggi e della loro situazione 'prima' della resurrezione prodigiosa è ormai completo. Ora Giovanni può procedere a narrare lo svolgimento del segno e le reazioni da esso provocate.

Ci preme al momento solo sottolineare le reazioni provocate dal segno di Gesù. Va ricordato che esse sono quelle degli abitanti del luogo, cioè di Betania, la città pericolosamente vicina a Gerusalemme, che è il luogo dove si consuma il mistero dell'incredulità in Gesù. Si tratta delle reazioni dei giudei accorsi a consolare le due sorelle. La prima è una chiara reazione di fede: «Molti giudei…che avevano visto…credettero in lui». Il verbo che Giovanni usa qui per indicare come i giudei videro il segno è il verbo theorein, un verbo che in Giovanni esprime una conoscenza piuttosto che la mera visione in senso fisico[2]. Il ricorso a questo verbo fa capire che la fede di queste persone non è superficiale, ma che si tratta di un'adesione piena e personale a Gesù provocata da un evento che loro hanno colto nella sua natura di 'segno', di rimando ad altro. In loro il segno ha raggiunto il suo scopo. Il testo però riferisce di un altro gruppo composto da coloro che hanno riferito il fatto ai farisei. Non è chiaro se questi siano non credenti o piuttosto alcuni di quelli che avevano creduto[3]. In ogni caso, è chiara la divisione tra i giudei che credettero ed i capi religiosi che pur davanti all'evidenza dei segni ne colgono solo il potenziale pericolo e decidono di far morire Gesù. In ambedue i casi, si tratta di reazioni ormai definitive. Non c'è più spazio per l'indecisione, la diffidenza o la fede imperfetta, ora che il segno è stato posto. Esso manifesta ormai le intenzioni reali e le disposizioni dei cuori. E' un altro scopo del segno.

 

Conclusione

“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,12). Così Gesù riassumerà nel capitolo 15 la natura dell’unione tra lui e i suoi discepoli, descritta con l’immagine dell’intreccio vitale tra la vite ed i tralci. Il segno della resurrezione di Lazzaro, raccontato da Giovanni nel capitolo 11, può trovare proprio in questa frase la sua didascalia, la sua spiegazione, il suo insegnamento. Si tratta dell’insegnamento trasmesso da un amore spinto fino al punto di esporsi alla morte ma che si rivela in realtà la sola testimonianza credibile, la testimonianza capace di suscitare la resa salda e serena alla fede più difficile: quella di una nuova vita oltre la distruzione irrevocabile, quella nella resurrezione. E' aperta la strada all' “ora” dell’amore amicale di Gesù.

 


[1] Così in Mt 9,30, Mc 1,43 e 14,15.

[2] Si vedano, come esempio, i testi di Gv 12,14 e 12,45, in cui indica il 'vedere' il Padre in Gesù; 14,17, in cui esprime il 'vedere' lo Spirito di verità; 14,19, dove i discepoli potranno 'vedere' Gesù dopo la sua morte.

[3] La formulazione della frase è letteralmente «molti dei giudei che … avevano visto … credettero; ma alcuni di loro andarono dai farisei e riferirono…».