31/08/2013 Ombretta Pisano 7584
Gentile Antonello, la domanda che ci pone riguarda il destino di tutti coloro che la rivelazione biblica definisce ‘giusti’ e, nella sua esemplificazione, il re Davide. La definizione di ‘giusto’ nella Bibbia – come già lei rileva giustamente a proposito di Davide – prescinde dal peccato. Lo scopo della rivelazione di un Dio che dona la Legge e che perdona è proprio quello di salvare il peccatore ristabilendo la sua giustizia, insieme a quella sociale che il peccato ha annientato. Per questo, in un altro passo celebre, si legge Dio vuole la vita del peccatore, non la sua morte (EZ 18,23).
Il destino dei giusti, poi, quello che già la tradizione biblica chiama ‘cielo’, è il ‘luogo’ proprio di Dio, la vicinanza con lui, l’avvento del suo Regno, una realtà esistenziale che nel vissuto terreno del giusto già è anticipata e che dopo la morte, liberata dalle pressioni contrastanti della storia, è vissuta in pienezza. Questa è la fede proposta dalla rivelazione biblica nella sua totalità e ne costituisce un comune denominatore rintracciabile in ogni pagina.
Biblicamente parlando, nell'Antico Testamento non si trovano espliciti riferimenti a personaggi morti e “ascesi al cielo”. Di Enoch in Gen 5,24 viene detto genericamente che “camminò con Dio e non fu più, perché Dio lo aveva preso”, e di Elia in 2 Re 2,11 si dice che viene rapito verso il cielo in un carro di fuoco, ma in nessun caso sembra di poter dire che si tratti di una sorta di ‘beatificazione’ (nel caso di Elia, la sua ascensione sembra piuttosto l’evento che legittima la funzione profetica del suo successore, Eliseo, testimone del fatto).
Il testo degli Atti degli Apostoli cui lei fa riferimento per il destino del re Davide non si preoccupa di riconfermare il dato del destino beato del giusto, né tantomeno di descrivere la modalità dell’accesso alla beatitudine divina, perché in questa sezione – quella del discorso di Pietro a Pentecoste - Luca insiste su Gesù e sulla sua superiorità rispetto a Davide e non sul destino di quest’ultimo.
Pietro nel suo discorso richiama due salmi che la tradizione biblica applica al re Davide, il Salmo 16 e il 110, mostrando che in realtà non parlano del destino escatologico di Davide, ma di Gesù. Il Salmo 110 aveva già una sua interpretazione in cui si mettevano sullo stesso piano il re messianico e Dio, un'operazione che nasceva dalla convinzione – già presente presso gli altri popoli dell’antico Vicino Oriente – che le azioni del re hanno sempre un corrispettivo celeste e assicurano al re il successo. La tradizione rabbinica successiva confluita nel Talmud babilonese (Sanhedrin 38 b) ripropone con rabbi Aqiba la stessa vicinanza tra Davide e Dio, quando questi dice che i due troni di cui si parla in Dn 7,9 sono uno del Santo ed uno di Davide, perché Dio stesso non fa nulla senza consultare la sua corte. A questa interpretazione così spinta, che mette di fatto Davide alla pari con Dio, viene aggiunta nello stesso testo talmudico un’opinione diversa, nata dalla necessità di evitare di profanare Dio affiancandogli un essere umano: e cioè che i due troni sono uno per il mite ed uno per il giusto (così rabbi Josè il Galileo, insieme ad Aqiba attivo negli anni 90-100).
Quindi, nell’epoca in cui il Nuovo Testamento vede la luce, esiste una tradizione che di fatto tende a mettere sullo stesso piano le figure di Dio e di Davide e che ha consentito agli autori neotestamentari di mostrare – come in questo discorso di Pietro – che il re messianico è Gesù, in virtù della sua superiorità su Davide (veda anche Mt 22,44; Mc 12,36; Lc 20,42). Pietro fonda questa superiorità ricordando che Gesù è risorto dai morti ed è asceso al cielo, dal quale ha poi effuso lo Spirito di Pentecoste, mentre la tomba del re Davide “è fra noi”. Poiché Davide“non è asceso al cielo” ma ancora nel sepolcro, come un profeta non parla di se stesso ma vede il compimento della promessa di una discendenza al suo trono nella figura del Cristo, colui del quale i Salmi parlano, che è risorto e, non avendo visto la corruzione del sepolcro, è asceso al cielo.
In definitiva, quindi, At 2,34 non ha come scopo di dire qual è il destino di Davide e dei giusti ma quello di mostrare in Gesù, superiore al re Davide, il Messia promesso.
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