28/05/2015 Maria Brutti 7585
Penguin Books, London 2012, pp. XVI-272
Fare una recensione di questo libro del grande studioso Geza Vermes è compito quanto mai arduo per la sua complessità e per il suo carattere multidisciplinare. È compito di un biblista, un esegeta del NT più in particolare, uno storico, uno studioso delle origini cristiane, un esperto nella letteratura intertestamentaria, un patrologo, uno studioso della storia della Chiesa? Tutto ciò è compreso in questo libro sul quale, nella consapevolezza dei miei limiti, ma sotto la spinta di un grande interesse per l’uomo-autore e per il contenuto dell’opera, mi accingo a svolgere la mia riflessione con alcune brevi considerazioni preliminari.
La prima, scontata forse ma necessaria, è che questo libro non nasce all’improvviso, ma è il frutto di una lunga rielaborazione della ricerca di Vermes. Fin dal 1984 il documento della Pontificia Commissione Biblica Bibbia e Cristologia, nel considerare i vari tipi di approccio della ricerca sul Gesù storico, sottolinea- va l’importanza di Geza Vermes, che «aveva individuato in Gesù un taumaturgo dello stesso tipo di quelli tramandati dalla tradizione ebraica» (1.1.5.3).
Nel 1973 Vermes aveva infatti pubblicato un libro, dal titolo Jesus the Jew, apparso in traduzione italiana dieci anni dopo, con il titolo Gesù l’ebreo nel quale, collocando Gesù nel contesto del giudaismo carismatico, si proponeva non«di ricostruire il ritratto autentico di Gesù, ma più modestamente, di scoprire sotto quali sembianze gli autori dei Vangeli, sulla scia della tradizione primitiva, abbiano voluto che Egli fosse conosciuto... Insomma, chi era il Gesù degli evangelisti» (pp. 19-20). Tuttavia, e questa è la seconda considerazione, Vermes, come sottolineava Sacchi in una recensione del 1984 (Henoch 6[1984], 348), aveva iniziato il libro (p. 14) menzionando il Credo di Nicea (IV sec.): «Io credo... in un solo Signore Gesù Cristo, unigenito figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, del- la stessa sostanza del Padre, per mezzo di Lui tutte le cose sono state create», dando a vedere che già nel 1973 il suo interesse non si fermava solo alla ricostruzione del Gesù storico, che aveva predicato nella Galilea e nella Giudea del I se- colo, ma anche a quello che Sacchi chiamava il Gesù «predicato» (p. 348), il Gesù della fede cristiana.
Nell’Introduzione a Christian Beginnings. From Nazareth to Nicaea, scritto a quarant’anni di distanza dal primo, dopo una serie di almeno 12 libri su temi paralleli, l’autore dichiara che, a partire dal 2008, ha iniziato una fase nuova di ricerca, incentrata sul tentativo di delineare la «la curva evolutiva tra il Gesù ri- tratto nel suo contesto carismatico della Galilea e il primo Concilio Ecumenico tenuto a Nicea nel 325 d.C., che proclamò solennemente la sua divinità come un dogma del cristianesimo» (p. XIII). Sempre nell’Introduzione, alcune riflessioni preliminari circa le caratteristiche della religione ebraica e la differenziazione progressiva del cristianesimo anticipano lo sviluppo successivo e la conclusione del libro. Il prevalere dell’aspetto filosofico, il cosmopolitismo, l’affermazione della teologia della sostituzione e la crescente influenza «ellenistico-gentile» furono gli elementi che caratterizzarono, dalla fine del I sec., un cambiamento che trasformò il giudaismo pratico, carismatico predicato da Gesù in una religione intellettuale definita e regolata dal dogma.
Sul «giudaismo carismatico» ritorna Vermes all’inizio del c. 1, appoggiando- si alla definizione di «carisma» del sociologo Max Weber e rivendicando a sé l’ideazione dell’espressione (p. 1). Tuttavia, sente il bisogno di chiarirla e precisarla, ipotizzando, accanto a una religione tradizionale, formale, fondata sul tempio e sulla Torah, l’esistenza di una religione basata su un contatto diretto con il divino che, a livello più alto, era costituita dall’ebraismo basato sulla rivelazione profetica, a livello più basso, da una religione esclusa dai centri pubblici e dalla burocrazia sacerdotale (p. 2). Rispetto tuttavia al libro del ’73 dove si era riferito esclusivamente a fonti rabbiniche, Vermes arricchisce le tradizioni legate al giudaismo carismatico di dati biblici e aggiunge riferimenti a testi della letteratura apocrifa, di Qumran e di Flavio Giuseppe. Attraverso un’attenta analisi che si sviluppa in tre capitoli: Il giudaismo carismatico da Mosè a Gesù (pp. 1-27); La religione carismatica di Gesù (pp. 28-60); Il cristianesimo carismatico nascente (o delle origini) (pp. 61-86), individua quindi i rappresentanti delle diverse categorie di carismatici: profeti, guaritori, esorcisti, evidenziando talora i punti di con- tatto, talora le differenze con la letteratura neotestamentaria e, in particolare, con la figura di Gesù. Ad esempio (pp. 5-6), Giovanni Battista è visto come la reincarnazione di Elia (2Re 1,8; vedi Mt 3,4); nella preghiera di Nabonide (4Q242) (p. 15) riconosce un’eccezionale anticipazione dei vangeli nel collegamento del perdono dei peccati alla guarigione del malato (Mc 2,8-11)In particolare, la figura di Gesù nei vangeli è al centro del c. 2. Tra le nume- rose osservazioni, quella che l’insegnamento di Gesù appare fondato non sulla Scrittura come quello dei rabbini e degli scribi, ma su eventi carismatici, come guarigioni ed esorcismi che abitualmente accompagnavano le sue istruzioni (p.38). Qui Vermes coglie un elemento importante della ricerca sul Gesù storico, da tempo oggetto di indagine da parte di alcuni studiosi del NT, i quali si sono interrogati, ad esempio, se i miracoli nell’insegnamento di Gesù abbiano una funzione «cristologica», vogliano cioè legittimare il compito e la posizione di Gesù come il Messia incarnato, o piuttosto una funzione «ecclesiologica», in quanto rifletterebbero la situazione delle prime comunità ecclesiali (vedi E.J. Vledder, Conflict in the Miracles Stories. A Socio-Exegetical Study of Matthew 8 and 9, Sheffield 1997, 11).
Vermes indica successivamente tre temi fondamentali della predicazione di Gesù, che svolge attraverso numerosi riferimenti a citazioni bibliche: Il regno di Dio, Dio il Padre e il Figlio o i figli di Dio (pp. 39-50). Nel ’73 un aspetto impor- tante della ricerca di Vermes aveva riguardato lo studio dei titoli attribuiti a Gesù: profeta, signore, Messia, Figlio dell’uomo, Figlio di Dio, ma alcune sue afferma- zioni a proposito del «Figlio dell’uomo», peraltro espresse già nel 1969 in una conferenza a Oxford, avevano suscitato un vivace dibattito sia riguardo alla sua interpretazione dell’espressione non come un titolo, ma come una sostituzione dei pronomi di prima e seconda persona singolare, sia all’uso di una documentazione limitata (vedi Sacchi, Henoch, 361; Sievers, http://www.vatican.va/jubi- lee_2000/magazine/documents/ju_mag_01111997_p-48_it.html). In questo libro riconferma la precedente interpretazione del Figlio dell’uomo, ma al centro del suo interesse è soprattutto l’espressione «Figlio di Dio», di cui segue meticolosamente l’evoluzione nel pensiero teologico del cristianesimo delle origini.
Nella sua ricostruzione successiva (c. 3) Vermes, considerando come fonti sia testi biblici (At 1–12; 1Cor; Gal e 1-2Ts; Gc e Lettere di Giovanni) che non biblici (l’Insegnamento dei 12 Apostoli o Didaché; la Lettera a Barnaba), sotto- linea nello sviluppo del cristianesimo da un lato il permanere dell’identità ebrai- ca, dall’altro la possibilità di ammettere non ebrei. Il contenuto caratteristico dell’Insegnamento degli Apostoli è la proclamazione di Gesù come il Messia (pp.76ss), tuttavia, negli Atti degli Apostoli, l’espressione «Figlio di Dio» è usata so- lo due volte (7,55.59), ma sembra non implicare una condizione divina. Il titolo preferito è «Servo di Dio» o «Capo». Ma è nel pensiero di Paolo (c. 4) e, soprattutto, nella cristologia di Giovanni (c. 5) che Vermes scorge un nuovo significativo allontanamento dalla religione escatologico-carismatica di Gesù e dalla dottrina messianico-escatologico-carismatica della Chiesa delle origini (p. 113). Nel Prologo al Vangelo di Giovanni, il Logos divino che opera sin dall’eternità è identificato con il personaggio storico di Gesù, in cui la Parola divenne carne (p. 130).
Nella seconda parte del libro (cc. 6-10), la più nuova rispetto agli scritti precedenti, Vermes ripercorre sinteticamente la comprensione cristiana della natura di Cristo nei tre secoli successivi. Essa gli appare caratterizzata dal riconoscimento della natura divina del Cristo e, parallelamente, da una de-giudaizzazione della nuova religione e dall’affermazione di una progressiva anti-giudaizzazione del nascente cristianesimo. Focalizzando l’attenzione su alcuni dei primi testi cristiani (cc. 6-7), Vermes osserva, ad esempio, che nella Didaché Gesù è essenzialmente il Servo di Dio e il testo non presenta alcuna animosità contro gli ebrei, mentre nella Lettera di Barnaba Cristo è chiamato Figlio di Dio e l’interpreta- zione simbolica di alcune nozioni fondamentali dell’Antico Testamento, come alleanza, digiuno, sacrificio, circoncisione, leggi alimentari, il sabato e il tempio, fa apparire la lettera come un trattato intra-cristiano che tenta di stabilire la supremazia dell’insegnamento apostolico sul giudaismo (pp. 151-152). Con i successivi scritti dei padri apostolici, in particolare la Seconda Lettera di Clemente, si afferma un’alta-cristologia implicita e la formale deificazione di Gesù (p. 165), mentre nella difesa di Ignazio contro il giudaismo si assiste al distacco di Gesù dal popolo ebraico (p. 169).
Nel pensiero dei tre maggiori teologi della seconda metà del II sec.: Giustino, Melitone e Ireneo (c. 8) e di tre grandi figure della metà del II e III sec.: Tertulliano, Clemente e Origene (c. 9), Vermes coglie da un lato un’ulteriore evoluzione del pensiero cristologico, dall’altro il progressivo allontanamento dell’immagine di Gesù dalle sue origini (p. 177). Nel Dialogo di Trifone di Giustino è svolta l’idea della giusta punizione divina incorsa agli ebrei per il loro rifiuto di Gesù (p. 182), mentre nella cristologia di Melitone l’enfasi sul corpo reale assunto dal Figlio eterno nell’utero della madre è accompagnata dal convincimento della colpa di deicidio e della conseguente perdita dell’elezione da parte degli ebrei (p.193). Anche se Ireneo manca della durezza e dell’asprezza antigiudaica, «con sognante ottimismo», dice ironicamente Vermes, si dichiara convinto dell’inevitabilità dell’accettazione del cristianesimo da parte degli ebrei, dato che il suo fondamento è nelle loro Scritture stesse (p. 198).
Vermes dedica particolare attenzione alla figura di Tertulliano che, nella situazione socio-politica creatasi nel III sec. (c. 9), fu «a salient landmark» (p. 209) per l’evoluzione dottrinale del cristianesimo. La sua dottrina dell’incarnazione e la sua elaborazione della relazione tra Padre, Figlio e Spirito Santo (pp. 204-207) furono all’origine del dibattito che porterà a una trasformazione definitiva del cristianesimo. Il contrasto tra Alessandro, vescovo di Alessandria, e il presbitero Ario trascinò la Chiesa in una situazione di estrema gravità con scontri verbali e politici, scomuniche, indizioni di concili, elaborazioni continue di teorie e definizioni; l’intervento dell’imperatore Costantino, se da un lato pose fine alla persecuzione della Chiesa, dall’altro determinò lo svolgersi degli eventi influendo pesantemente sulla soluzione del problema. La convocazione del concilio di Nicea da parte dell’imperatore e il suo svolgimento sono descritti in modo dettagliato da Vermes, così come la sua conclusione, che portò alla definizione che il Figlio era della stessa sostanza o essenza (ousia) del Padre, homoousios, con-sostanziale al Padre, ma Vermes sottolinea che la lotta per le definizioni cristologi- co-trinitarie continuò ancora per almeno mezzo secolo. Da allora però fu centrale nel cristianesimo l’accettazione individuale del Cristo divino e della sua esistenza superumana nel mistero del Dio Uno e Trino della Chiesa.
Alla fine di questo lungo e articolato cammino nelle origini cristiane, Vermes giunge alla conclusione che fu Giustino Martire il fondatore della «teologia cristiana, teologia dal punto di vista formale legata alla filosofia platonica, un sistema del tutto differente dal modo di pensare non speculativo di Gesù» (p. 239). Il suo augurio finale, che conferma in modo esplicito quanto espresso sin dall’ini- zio del libro, è che le Chiese cristiane possano raggiungere una rivitalizzazione, una riforma che le riporti all’entusiasmo e alla pura visione religiosa di Gesù, «il carismatico messaggero ebreo di Dio» (p. 242).
Mentre si apprezza la straordinaria competenza che lo studioso ha profuso in questa sintesi delle fonti cristiane delle origini, la sua impostazione storica e le sue valutazioni suscitano talvolta perplessità. Nella ricerca delle origini cristiane, Vermes sceglie la via dello sviluppo diacronico, distinguendo la religione carismatica di Gesù dal cristianesimo degli apostoli, di Paolo, di Giovanni, dei padri della Chiesa. Tuttavia questa sua visione suscita alcuni interrogativi, oggi presenti agli storici del cristianesimo delle origini: 1) ad esempio, è legittimo parla- re già di cristianesimo al tempo degli apostoli, di Paolo e di Giovanni? 2) Non sarebbe storicamente più adeguato parlare di un’origine «sincronica», nella qua- le la separazione del giudaismo assunse contemporaneamente aspetti e tempi di- versi? In un libro recente, Mauro Pesce identifica nel Dialogo di Trifone sei di- versi tipi di seguaci di Gesù (Da Gesù al cristianesimo, Brescia 2011, 202). In questo senso la visione di Vermes appare forse troppo rigida, anche se è comunque evidente nel libro che l’interesse di Vermes è rivolto soprattutto all’evoluzione teologica del pensiero cristiano, più che all’aspetto sociale della formazione delle comunità cristiane.
Al di là della giustezza del discorso storico, si percepisce però talvolta un tono polemico, presente anche in altri scritti di Vermes, che sottintende la lunga storia dell’antigiudaismo cristiano e delle persecuzioni a cui gli ebrei furono sottoposti da parte dei cristiani. In questo senso si può comprendere anche il problema principale che questo libro solleva, l’identità divina di Gesù, continuamente messa in questione da Vermes. Problema sentito anche dallo stesso autore, come appare evidente da alcune valutazioni che egli dà dei testi neotestamentari, mai affrettate, ma ragionate. Così, ad esempio, quando parla dello status di Gesù nel pensiero di Paolo, lo studioso ammette che ci sono dei brani problematici (Rm 9,4-5; Fil 2,6-11; Col 1,15-20; Eb 1,1-3; Tt 2,13) ma, per dimostrare che questi passi non appartengono al pensiero paolino, cita elenchi di formule di preghiere e di benedizioni tratte dall’epistolario paolino (pp. 111-112).
Non entro in merito alle singole interpretazioni che Vermes fa dei testi neotestamentari, ma osservo soltanto che se per l’ebraismo la cristologia rimane assolutamente inaccettabile, da un punto di vista cattolico si potrebbe dire che il progressivo riconoscimento della divinità del Cristo non è un fatto solo intellettuale, ma nasce dalla comprensione più profonda che la comunità cristiana ebbe di Gesù nel periodo successivo alla sua morte e risurrezione. Se si trattò di un periodo successivo di pochi decenni e di qualche secolo, come dice Vermes, è dibattuto anche in ambito cristiano e tra gli studiosi delle origini (vedi ad esempio, tra i contributi più recenti in lingua italiana, L.W. Hurtado, Come Gesù divenne Dio. La problematica storica della più antica venerazione di Gesù, Brescia 2010, che situa il riconoscimento di Gesù come Figlio di Dio subito dopo la sua morte).
Dunque la ricerca di Vermes è senz’altro ricca e stimolante, ma pone e lascia aperti molti problemi e interrogativi in merito alla valutazione delle fonti, comeanche riguardo all’uso del linguaggio cristologico-trinitario nello sviluppo della teologia cristiano-cattolica. Un contributo importante in questo senso ci viene offerto da un libro a più voci, nato dal dialogo tra studiosi cristiani, cattolici ed ebrei, di recente pubblicato anche in lingua italiana (J. Svartvik – P.A. Cunningham – J. Sievers – M.C. Boys – H.H. Henrix et al., Gesù Cristo e il popolo ebraico. Interrogativi per la teologia di oggi, Roma 2012) il quale, proponendo nuovi percorsi nella ricerca teologica, e in particolare nella cristologia, si ricollega indirettamente ad alcune osservazioni presenti nel testo di Vermes. Uno degli autori, Hermann Henrix, approfondendo il tema dell’incarnazione del Logos Figlio di Dio, pone il problema del difficile rapporto con l’ebraismo, ed esprime l’esigenza di una rifondazione della cristologia a partire non solo dall’identità umana di Cristo, ma dalla sua identità ebraica. Un’altra autrice, Elisabeth Groppe, ripercorre la storia della formulazione cristologica di Nicea, osservando che i testi che divennero i Vangeli canonici non elaborarono l’esatta natura delle relazioni tra Dio il Padre, Gesù Cristo e lo Spirito Santo e rimasero aperti a varie interpretazioni, che divisero le comunità. Per questo la Chiesa «ritenne necessario andare al di là delle narrazioni bibliche e introdusse categorie ontologiche, allo scopo di chiarire le relazione tra Dio il Padre, Cristo e lo Spirito» (p. 256).
A partire da queste e altre riflessioni, Henrix, Groppe e altri autori cristiani e cattolici, in dialogo con studiosi ebrei, hanno iniziato una rifondazione della cristologia che nasce dal riconoscimento dell’identità di Gesù non semplicemente come uomo, ma come uomo ebreo. Come sottolinea ancora Henrix, «Fin dal Medio Evo, il concetto di shittuf (una connessione, una comunione, una associazione) ha espresso il disagio ebraico con la cristologia cristiana dell’incarnazione. Questo concetto di shittuf esprime la critica ebraica del culto cristiano di Gesù Cristo come il Figlio di Dio, uguale nell’essere al Padre; secondo il punto di vista ebraico, questo aggiunge un elemento di confusione al sé di Dio». La sua esortazione è che la «teologia cristiana deve sviluppare oggi una sensibilità verso gli ebrei, curando di non interpretare la relazione tra le nature umana e divina in Gesù Cristo in termini di confusione o di fusione e di simbiosi» (p. 194). Questo compito, questo lavoro è già iniziato, come dice l’Introduzione al libro, «nel riconoscimento dei suoi limiti di fronte al mistero e dell’umiltà indispensabile per il lavoro del teologo cristiano» (p. 20).
Nelle fasi alterne e complesse che ha avuto, a partire dall’inizio del XIX sec., la ricerca sul Gesù storico, il libro di Geza Vermes occupa un posto del tutto particolare per la ricchezza della documentazione, delle conoscenze, e anche delle provocazioni. Ma un suo aspetto originale e importante appare il fatto di aver sottolineato ed evidenziato come la scarsa considerazione della figura di Gesù dal punto di vista umano abbia finito con il portare a un annullamento della sua identità ebraica. Non solo Gesù non era più considerato un uomo, ma soprattutto non era ebreo. Parallelamente e paradossalmente, inoltre, lo sviluppo della cristologia ha favorito, nel pensiero dei padri apostolici dei primi secoli, quell’insegnamento del disprezzo che è stato all’origine di tanto antigiudaismo cristiano.
Leggere Christian Beginnings. Da Nazareth a Nicaea (AD 30-325) vuol dire dunque rendere in primo luogo noi stessi consapevoli di questo, superare definitivamente quel «sognante ottimismo» di cui parla Vermes e ricercare un’identità cristiana nella quale la purificazione della memoria diventa momento fondamentale e indispensabile.
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