18/07/2015 Ombretta Pisano 7743
Una direttiva cattolica della Congregazione per il Culto Divino emanata alla fine di giugno del 2008 , raccomanda di evitare di nominare Dio con i derivati del Tetragramma sacro nei testi e nei canti liturgici, e di utilizzare le espressioni linguistiche che si riferiscono a Lui come 'Signore'. Con il termine 'Tetragramma' ci si riferisce alle quattro lettere che in ebraico compongono quel Nome che è stato per lungo tempo vocalizzato e pronunciato nelle preghiere e negli inni cristiani come “Yahweh,” “Yahwe”, “Jahweh,” Jahwe,” “Jave,” “Yehovah,” etc. La ragione della direttiva cattolica è "restare fedeli alla tradizione della Chiesa degli inizi, che mostra come il Tetragramma sacro non fu mai pronunciato nel contesto cristiano, né tradotto in nessuna delle lingue in cui la Bibbia è stata tradotta". Il documento precisa come già a partire dalla traduzione greca dell'Antico Testamento (la Settanta) il Nome di Dio "come espressione dell'infinita grandezza e maestà di Dio, fu ritenuto che fosse impronunciabile e perciò fu sostituito nella lettura della Sacra Scrittura mediante l'uso di un nome alternativo: "Adonai", che significa "Signore."
La stessa prassi della Chiesa delle origini richiamata dal documento, affonda le sue radici nell'usanza ebraica di non pronunciare il Nome di Dio. La Mishnah ed il Talmud, testi sacri della tradizione orale degli ebrei, riferiscono che la pronuncia del Nome era permessa fino alla distruzione del primo Tempio ad opera di Nabucodonosor nel 589 a. C. (Mishnah Berakhot, 9,5), dopodiché veniva concessa solo ai sacerdoti (Mishnah Sotah 7,6) e solo nel luogo più segreto del Tempio, il Santo dei Santi, in occasione dello Yom Kippur, del Giorno dell'Espiazione (Mishnah Tamid 7,2). Progressivamente, con l'aumento dell'irriverenza e la caduta del livello spirituale, il Nome venne pronunciato con riluttanza e sempre più sommessamente (Talmud, Yoma 40) fino alla proibizione definitiva, dopo la distruzione del Tempio nel 70 d. C.
Il perché del divieto
La raccomandazione a non pronunciare il Tetragramma divino, è, secondo il documento cattolico, "un incoraggiamento a mostrare riverenza per il Nome di Dio nella vita quotidiana, ponendo un'enfasi sul linguaggio come atto di devozione e di culto". La Bibbia stessa documenta un rapporto di estremo riguardo nei confronti del Nome di Dio come forma di inafferrabilità riguardo a Lui. Nel decalogo, in Es 20,7, troviamo il comandamento a "non pronunciare il Nome di Dio invano". La parola che traduciamo con 'invano' può significare diverse cose: un uso leggero e superficiale, ma anche il 'niente' che sono gli idoli, e in questo caso il divieto è di dare il Nome di Dio a realtà che non sono Dio e che perciò diventerebbero idoli. Si può anche intendere la falsità dello spergiuro, e quindi, con il divieto, si mette in guardia contro l'uso del Nome divino per affermare falsità, in contesto giuridico e più ampiamente morale. Più genericamente si può dire che il divieto riguarda l'uso strumentale del Nome di Dio a proprio egoistico vantaggio.
Il divieto di pronunciare il Nome si radica nell'assoluta trascendenza divina. Il nome, infatti, nella tradizione biblica, è ciò che racchiude l'identità della persona, e dare il nome alle cose è proprio di chi le conosce, e ne esercita un possesso. Nella Bibbia Dio spesso cambia il nome delle persone a cui ha affidato una missione, un compito particolari. Così, solo per fare un esempio, in Gen 17,5 Abram diventa 'Abraham', nome che significa 'padre di un popolo'.
Conoscere il nome di una persona dà un potere su di essa. Un chiaro esempio di questa idea è presente nel brano della lotta di Giacobbe con Dio, raccontata in Gen 32. Si noti, nei vv. 28-30, la squisita architettura del racconto che gioca sul dire il proprio nome. Giacobbe riceve un nuovo nome da Dio, "Israele ", che porta in sé il ricordo dell'incontro ed il mistero del rapporto tra lui e Dio, ma quando egli stesso prova a chiedere come si chiama Dio, che ha lottato con lui, Dio non lo dice. Ciò che invece Dio dice, ciò che Lo rivela, è un atto: la benedizione; Dio si fa riconoscere come Colui che benedice Giacobbe/Israele.
Su queste premesse capiamo bene perché il Nome di Dio sia indicibile: perché Dio non sia ridotto ad un Nome pronunciabile (e quindi manipolabile) da un essere umano. Non dire il Nome di Dio, quindi, segnala il più profondo riconoscimento del proprio essere creatura davanti al Mistero dell'ineffabilità divina e, allo stesso tempo, dice che Dio è talmente oltre che non si può cogliere mai completamente la sua identità, mai lo si può dominare.
Il fatto che, però, in Esodo 3,14 Dio riveli il suo Nome, non diminuisce il suo mistero e la sua trascendenza. Nel momento in cui Dio invia Mosè al popolo ebraico per liberarlo, nel momento in cui Egli deve diventare un interlocutore per il suo popolo e rendersi riconoscibile, allora Dio si rivela con un Nome, che è un elemento concreto che rende possibile la mediazione. Da questo momento Dio ed il popolo di Israele iniziano il cammino che li porta - al Sinai - a riconoscersi reciprocamente come io/tu. In questo senso, il Nome è un dono attraverso il quale Dio si fa materialmente ‘udibile’ dal suo popolo, è – come la sua Parola – una Sua ‘incarnazione’. Quando, arrivato a Sinai, al popolo viene fatto il dono della Legge, nel Decalogo (Es 20) il comandamento viene a dirci che però il rapporto con questo Nome va regolato, perché se è vero che l'atto di consegnarsi all'altro dicendo il proprio Nome esprime tutta la volontà di reciprocità con il suo popolo, d'altra parte resta il fatto che tale reciprocità non è come quella tra due partner qualunque. Il mistero del Nome che non si può pronunciare e che però bisogna conoscere, dice tutto il mistero del rapporto tra Dio e il suo popolo, fatto di vicinanza e lontananza, di intimità e infinito rispetto.
E' interessante notare che, anche se nella Bibbia non vi è un'espressa proibizione di pronunciare il Nome, ma piuttosto una regolamentazione di tale pronuncia, ancora in epoca biblica (la traduzione greca dei LXX, del II sec. a.C. tende a sostituire il Tetragramma con il termine 'Signore') e neotestamentaria, la tradizione ebraica ed ebraico/cristiana evita di pronunciare il Tetragramma sacro come segno di rispetto. Un rispetto che si esprime attualmente tra gli ebrei anche nell'evitare di toccare con le mani il testo mentre si accompagna la lettura (operazione che viene svolta tenendo un'assicella d'argento che termina con una 'manina') e, nella scrittura, con la sostituzione del Tetragramma con 'Adonai' (Signore). A questo proposito, vale la pena soffermarsi un momento sull'origine del nome 'Yehova' a cui si riferisce il documento cattolico. In antichi manoscritti ebraici della Bibbia vennero applicate al Tetragramma le vocali di Adonai /Signore, da cui risultò "YeHoWaH". Il testo così vocalizzato aveva solo lo scopo di ricordare al lettore che il Nome andava pronunciato 'Adonai/Signore' e non letteralmente. Nel sedicesimo secolo uno scriba tedesco che tradusse la Bibbia in Latino riprese il testo così com'era e scrisse il Nome con le consonanti e le vocali. L'uso di questo Nome vocalizzato è invalso progressivamente, nonostante fosse un composto artificiale.
La proposta della mistica ebraica
Per arricchire ulteriormente la riflessione sul Nome e su cosa significhi non poterlo pronunciare, vale la pena fare riferimento ad una suggestiva interpretazione di questa consuetudine, espressa nella tradizione della mistica ebraica, che lega il mistero del Nome divino al mistero della Creazione dell'essere umano . Per comprendere appropriatamente il metodo di interpretazione seguito dalla mistica, va tenuto presente che per questa tradizione nessun dettaglio letterale del testo biblico è senza significato. Ogni singola lettera, ogni singolo segno e persino ogni pausa tra una frase e l’altra hanno un significato, rivelano qualcosa su Dio o un dettaglio del suo insegnamento rimasto nascosto.
Il testo in ebraico del racconto delle origini dell'essere umano che troviamo in Gen 1,26-27, si riferisce a Dio come ad un plurale: "Facciamo la creatura-di-terra a immagine nostra" e dopo viene detto: "maschio e femmina li creò". Secondo il racconto, il mistero della creazione dell'essere umano è quello di un essere che ha un'immagine plurale di Dio. La tradizione cristiana ha letto questa pluralità divina anche nel senso dell'immagine trinitaria del Dio Creatore, ma in ogni caso, si tratta di una immagine plurale specchiata nel maschio e femmina, che sono distinti ma al tempo stesso sono anche l'unico risultato dello stesso atto creatore, una misteriosa unione di due individualità.
Questa unione di maschile e femminile si trova espressa in modo un po’ bizzarro anche in altri testi e circostanze. In Num 11,12 Mosè è un padre che si occupa di Israele come se lo avesse partorito lui e ne fosse la balia; in Est 2,7 Mardocheo è per Ester il padre e madre che lei non ha più, in Isa 49,23 i re di Israele sono come nutrici. Se andiamo oltre scrutando il testo, ci accorgiamo che in Gen 3,12 Adamo, dopo aver mangiato dell'albero, risponde a Dio: "la donna … lui mi ha dato dell'albero ed io ne ho mangiato"; in Gen 3,20 la donna viene chiamata Eva "perché lui era la madre di tutti i viventi", e gli esempi potrebbero continuare. Molte di queste stranezze testuali sono spiegate grammaticalmente. L’ultimo esempio del pronome maschile hu (lui) viene spiegato con l'uso intercambiabile del pronome, adattabile sia a lui che a lei. Gli stessi maestri ebrei che hanno vocalizzato il testo biblico nell'antichità hanno anche provveduto a porre dei segni accanto a questi esempi di 'errore', indicando che non devono essere pronunciati come sono scritti, ma in altro modo (e così segnalano che nei csi visti, il pronome hu in realtà va pronunciato hi (lei). Tuttavia, la tradizione interpretativa mistica si sofferma ugualmente su di essi e li scruta e preserva perchè custodiscono un frammento del mistero di Dio. Così, un'altra stranezza portatrice di significati nascosti è legata ai nomi di persona. Basta leggerli al contrario. Mosè (msh), che in lingua egiziana significava "figlio di" (come Ramses significava ‘Figlio del (dio) Ra’ o Tutmosis ‘Figlio del (dio) Tot’), letto al contrario diventa 'il Nome' (hsm), espressione che nella Bibbia rimanda a Dio stesso. Cosa succede se lo stesso principio viene applicato alla lettura del Nome di Dio? Cosa si ottiene provando a leggere al contrario anche il Tetragramma?
Il contrario di YHWH è "HWHY". In ebraico si tratta dei due pronomi, il maschile e il femminile, uniti insieme: “HuHi”, “LuiLei”. La spiegazione che questa lettura mistica dà dell'impronunciabilità del sacro Nome di Dio sta proprio nel fatto che non si deve leggere così come appare, ma al rovescio. Ciò che concretamente viene rivelato da questo mistero così reso palese, è che il peccato di Adamo è stato quello di rovinare il matrimonio tra la parte maschile e quella femminile di Dio, operando un 'divorzio' dalla sua stessa componente femminile. Che nell'epoca del Messia il maschile ed il femminile si riuniranno . Che per la mistica ebraica il segreto del Nome sta nell'unificazione di ciò che di maschile e femminile abita in ognuno di noi. Che Dio è ed al tempo stesso non è ancora, l'Uno "Lei/Lui". E che ogni volta che si agisce in modo da ricreare l’armonia tra uomo e donna è come unificare Dio stesso e manifestare al mondo il Suo vero Nome, ciò che Lui veramente è.
Conclusioni
La tradizione mistica ebraica ci propone un metodo di lettura certamente molto particolare ma che, visto dai suoi risultati indubbiamente costruttivi, offre anche un nuovo punto di vista ed un nuovo significato ad un argomento spesso considerato troppo ovvio. Custodirlo nel bagaglio di interpretazioni possibili su cui riflettere non può che fare bene.
Allineandosi alla prassi ebraica e antico-cristiana di trattare il Nome divino tenendo presente tutto il Suo mistero, la chiesa cattolica invita a riflettere sulla infinita grandezza e potenza di Dio. Per un cristiano, una tale riflessione non può non incontrare il mistero di Cristo, il Kyrios/Signore. Davanti a questo mistero san Paolo afferma in modo esplicito e coraggioso che “...non c’è più nè uomo nè donna poichè tutti voi siete uno, in Cristo Gesù.” (Gal 3:28).
In quanto mediatore unico tra Dio e l’umanità, per il cristiano Gesù Cristo è proprio colui che, rendendo visibile il Padre altrimenti invisibile (cf. Gv 1:18), facendo dei due un popolo solo e distruggendo in sé ogni muro di divisione ed ogni inimicizia (cf. Ef 2:14), nel suo corpo dà ‘carne’ a questo Nome che dice “unità”. La scoperta del suo profondo segreto e la capacità di svelarlo al mondo costituisce l’affascinante cammino di ogni cristiano.
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