Cardinale Walter Kasper
Italia 19/01/2004
È per me un onore avere questa sera l'opportunità di parlare a questa stimata assemblea e di parlare dei trent'anni della Pontificia Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo. Sono convinto di non esagerare affermando che i quasi quarant'anni dalla promulgazione di “Nostra aetate” (n. 4) - festeggeremo infatti il 40° anniversario del documento il prossimo anno – possono essere considerati tra i più sorprendenti sviluppi del XX secolo; essi hanno cambiato radicalmente la situazione delle relazioni ebraico-cristiane formatesi in duemila anni di storia e ciò ha avuto un impatto positivo per il mondo intero.L'urgenza di stabilire migliori relazioni ebraico-cristiane è ancora più grande in questi mesi segnati dal tragico e sanguinoso conflitto tra Israeliani e Palestinesi nel Medio Oriente, un conflitto che non può lasciarci indifferenti, a causa delle innumerevoli vittime innocenti da entrambe le parti. Anche se in questo contesto non siamo chiamati a trattare degli aspetti politici di questo conflitto, tali aspetti tuttavia non possono essere messi da parte completamente perché evocano problemi etici fondamentali e sono intimamente legati alla dimensione religiosa, che è il solo mandato della Commissione della Santa Sede per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo. Alcuni sono del parere che questo conflitto preannunci la fine del dialogo o quantomeno conduca ad un “impasse”. Io non condivido questa visione pessimistica. Al contrario, questo tragico conflitto evidenzia precisamente l’urgenza del dialogo tra le tre religioni abramiche: Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Il conflitto del Medio Oriente dimostra ciò che è già stato affermato più volte: non può esserci pace nel mondo senza pace tra le grandi religioni.
Questa idea ci aiuta a capire l'urgenza del lavoro della Commissione Pontificia e le sfide che le si presentano, argomento sul quale mi è stato chiesto di parlare questa sera. Spero di non sembrare arrogante se dico che perfino in questo conflitto la nostra Commissione è e vuole essere un piccolo e modesto segno di speranza, una piccola luce che brilla nell'oscurità.
I. L'inizio di un nuovo inizio
Prima di parlare degli sforzi attuali, vorrei ricordare gli inizi della nostra Commissione. È scontato, ma vale comunque la pena ricordare che solo coloro che conoscono la storia possono comprendere il presente e “gestire” il futuro. E vale anche la pena ricordare che la Commissione è stata una sfida fin dal suo istituzione. Fu iniziata indirettamente da Papa Giovanni XXIII che era stato eletto per essere un Papa di transizione, un Papa “ad interim” per così dire, ma che divenne l'architetto della transizione nella Chiesa e indirettamente nel mondo, poiché con il suo pontificato è la Chiesa stessa che vive in una situazione “ad interim” e in una situazione di transizione. Uno dei cambiamenti fondamentali a cui Papa Giovanni XXIII diede vita fu l'inizio di una nuova era nelle relazioni tra cristiani ed ebrei. “I am Joseph your brother – Sono Giuseppe vostro fratello” - disse agli ebrei che incontrò poco dopo la sua elezione. Il Venerdì Santo del 1959 abolì dalla liturgia la formulazione che parlava di "perfidi ebrei". Questa era una nuova impostazione, alla quale non si era abituati dopo tanti secoli in cui le relazioni tra ebrei e cristiani erano tutt'altro che fraterne e amichevoli.
Dopo un lungo periodo contrassegnato da un "linguaggio di disprezzo" (Jules Isaac), i primi contatti avvennero – paradossalmente – nei campi di concentramento nazisti, dove ebrei e cristiani insieme dovevano confrontarsi spesso con un sistema totalitario barbarico e neo-pagano e insieme scoprivano la comune eredità e i comuni valori. Più tardi ci sono stati dei precursori coraggiosi che hanno preparato e spianato la strada. Ebrei come Leo Baeck, Franz Rosenzweig, Martin Buber, Jules Isaak, Schalom Ben-Chorim, Joseph Klausner, David Flusser e tanti altri, e cattolici come Jacques Maritain in Francia e Gertrud Luckner in Germania. Papa Giovanni XXIII stesso quando era Nunzio a Istanbul durante la Seconda Guerra Mondiale intervenne personalmente per salvare innumerevoli ebrei. Il suo stesso comportamento quindi ha reso credibile la volontà di intraprendere una nuova fase di relazioni.
Ma per implementare un tale nuovo inizio può essere una sfida anche per un Papa. Secondo la dottrina cattolica i Papi hanno la pienezza della giurisdizione all'interno della Chiesa cattolica; ma sarebbe ingenuo pensare che lo stesso Papa non sia condizionato da coloro che gli sono attorno. Papa Giovanni XXIII fu fortunato nel trovare un valido collaboratore nella persona del Cardinale Augustin Bea. Di nazionalità tedesca, uno studioso del Vecchio Testamento, altamente stimato e allo stesso tempo un uomo che conosceva la Curia e che sapeva come trattare con essa, il Cardinale Bea era dotato di saggezza, prudenza e coraggio, sensibilità umana ed era una mente spirituale attenta. Il Papa lo nominò Presidente dell'allora Segretariato per la Promozione dell'Unità dei Cristiani (1960). Ma fu solo nel 1974 che la Pontificia Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo fu istituita all'interno di quello che ora si chiama “Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani".
Il lavoro dell'allora Segretariato e più tardi della Commissione fu una sfida fin dall'inizio. Le sfide aumentarono quando Papa Giovanni XXIII dopo una memorabile visita di Jules Isaac nel giugno 1960 decise che il Concilio Vaticano II, che egli aveva convocato con grande sorpresa della Curia e di tutta la Chiesa, pubblicasse una Dichiarazione sugli ebrei e incaricò il Cardinale Bea di prepararla.
La strada che si apriva sarebbe diventata una strada in salita. Dopo che il documento fu approvato dal Concilio, il Cardinale Bea disse ad un amico: “Se prima d’iniziare avessi saputo tutte le difficoltà [che ho dovuto superare], non so se avrei avuto il coraggio di prendere questa strada.” Ci fu forte opposizione sia dall’esterno che dall'interno. Dall'interno emersero i vecchi e ben conosciuti modelli di anti-giudaismo tradizionale, dall’esterno ci furono aspre proteste soprattutto da parte dei paesi musulmani che minacciavano seriamente i cristiani che vivevano in quei luoghi come piccole minoranze. Per salvare il salvabile venne deciso di inserire la suddetta Dichiarazione come un capitolo della “Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane”, che più tardi doveva essere conosciuta come “Nostra aetate”.
Questo fu tuttavia un compromesso, poiché il Giudaismo non è una religione tra le religioni non cristiane ma, come afferma chiaramente il Capitolo 4 della Dichiarazione, la Cristianità ha un rapporto particolare e unico con il Giudaismo. Non possiamo definire la Cristianità e la sua identità senza fare riferimento al Giudaismo, e ciò non si può dire nel caso dell'Islam, del Buddismo o di ogni altra religione. Il Giudaismo appartiene alla radice stessa della Cristianità. Ma per condividere questa convinzione, per formularla e per trovare una maggioranza in seno al Concilio non fu un'impresa facile. Il noto Arcivescovo francese Lefèbvre non fu l’unico che si oppose; ce ne furono tanti altri, provenienti soprattutto dai paesi a maggioranza musulmana.
Alla fine si giunse a due importanti, e rinomate, decisioni del Concilio. Da una parte, il rifiuto di tutti i tipi di antisemitismo e dall'altra, il ricordo delle radici ebraiche della Cristianità, del comune patrimonio quali figli di Abramo nella fede. L'attuale Papa, Giovanni Paolo II, ha perseguito queste intuizioni con forza e ha approfondito entrambi questi aspetti. Per lui l'antisemitismo è una crudele violazione dei diritti umani, va contro la dignità di ogni persona, che non è legata alla discendenza, alla cultura, alla religione o al sesso, ed è in netta contraddizione con ciò che è espresso nella prima pagina della Bibbia stessa, che Dio ha creato l'essere umano e ciò significa che: ha creato ogni singola persona a sua immagine e somiglianza, così che ogni persona possiede una dignità immensa che richiede un rispetto assoluto dal suo prossimo. L'antisemitismo è un peccato.
Nel corso del suo lungo pontificato, Giovanni Paolo II ha ripetuto più volte e in varie circostanze che il popolo ebraico è il popolo scelto e amato da Dio, il popolo dell'alleanza con Dio, che non si è mai interrotta ed è ancora viva, proprio per la fedeltà di Dio. Quando il Papa visitò il Tempio Maggiore di Roma definì gli ebrei “i nostro fratelli maggiori nella fede di Abramo”. La prima domenica di Quaresima dell'anno 2000 e in una commovente immagine presso il Muro del Pianto a Gerusalemme, il Papa pregò chiedendo perdono per tutti i peccati che i cristiani avevano commesso contro gli ebrei e definì la Shoah il Calvario del XX secolo.
Quindi, entrambi i pontificati di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II hanno iniziato – come speriamo – un nuovo periodo storico di amicizia tra ebrei e cattolici in questo nuovo secolo e in questo nuovo millennio. Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II si sono impegnati a dimostrare che la conversione, la riconciliazione e un nuovo inizio sono possibili.
II. Cosa è accaduto nel frattempo
Il riferimento ad alcune importanti dichiarazioni del Papa attuale sta a significare che la sfida non è finita con la chiusura del Concilio nel 1965. Gli ostacoli, l'opposizione, i conflitti e i problemi, e di conseguenza le sfide sono continuati. Ma è anche stato fatto un enorme progresso. Redigere una buona dichiarazione conciliare è una cosa, ma farla conoscere e far sì che sia recepita nella globalità della Chiesa universale, e ancora di più implementarla perché sia conosciuta alla base, è un'altra cosa.
I decenni che seguono qualsiasi Concilio sono caratterizzati da un vivo dibattito e a volte un profondo conflitto riguardante la giusta interpretazione e la realizzazione adeguata del Concilio, e questo processo non è stato diverso nella considerazione del IV Capitolo della Dichiarazione “Nostra aetate”.
La Commissione della Santa Sede per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo – guidata dopo il Cardinale Bea dal Cardinale Willebrands e dal Cardinale Cassidy – si è impegnata incondizionatamente in questo senso. La Dichiarazione del Concilio era solo l'inizio di un nuovo inizio ed era necessario costruire sulle fondamenta che il Concilio aveva posto e tradurre il messaggio conciliare non solo nella lingua ma anche nelle situazioni e nei contesti più diversi. Le nuove generazioni di adesso non erano nate quando il Concilio terminò 39 anni fa; per loro esso rappresenta storia remota. Quindi dobbiamo trasmettere e ritrasmettere il messaggio del Concilio alle nuove generazioni. Superare l'antisemitismo e promuovere relazioni positive e amichevoli tra le due comunità di fede non può essere attuato solo una volta, perché è un impegno educativo permanente.
Segni allarmanti manifestatisi negli ultimi mesi che riguardano l'insorgere di un nuovo antisemitismo hanno mostrato tragicamente che c'è ancora tanto da fare e si devono intraprendere nuovi sforzi perché la visione conciliare sia conosciuta da tutti.
Sono stati pubblicati una serie di documenti utili: “Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della Dichiarazione conciliare Nostra Aetate N. 4” (1974), “Note sul corretto modo di presentare gli ebrei nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica romana” (1985), “Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah” (1998).
I documenti sono importanti, ma non sono tutto. Essi possono diventare lettera morta; al contrario, il dialogo si sviluppa con incontri personali, faccia a faccia. Oltre ai numerosi incontri individuali, abbiamo iniziato anche contatti con istituzioni ebraiche. Questi contatti sono regolari e positivi, per lo più amichevoli, a volte – e come potrebbe essere diversamente? – anche conflittuali. Vorrei qui accennare alle relazioni regolari e fruttuose con, per esempio, l’ “International Catholic-Jewish Liaison Committee – Comitato di collegamento ebraico-cristiano” e al suo interno l’ “International Jewish Commission for Interreligious Consultations – Commissione internazionale ebraica per la consultazione interreligiosa” (IJCIC).
Sarebbe tuttavia un'illusione, e in ogni caso assolutamente impossibile, che tutto potesse o addirittura dovesse attuarsi ad un livello universale più elevato. La Chiesa cattolica esiste – come affermò il Concilio – “dentro e fuori delle Chiese locali”, che hanno la loro propria responsabilità. Quindi nel periodo postconciliare molte conferenze episcopali hanno istituito delle commissioni per il dialogo con l’ebraismo a livello locale e a loro volta hanno pubblicato delle dichiarazioni importanti. Due grossi volumi raccolgono la collezione di tutti questi testi.
La Commissione Pontificia segue, ispira, stimola e a volte promuove tali attività a livello nazionale e locale. Mentre negli ultimi decenni il dialogo è stato perseguito specialmente nel contesto dell’ebraismo nordamericano, ora cerchiamo di promuovere tale dialogo anche in Europa. Anche il dialogo ebraico-cristiano in America Latina viene seguito con interesse. Nel 2002 ha avuto luogo a Montevideo (Uruguay) l’incontro dell' “International Council of Christians and Jews – Consiglio internazionale cristiano-ebraico”; l'ultimo incontro internazionale dell’ “International Catholic-Jewish Liaison Committee – Comitato di collegamento ebraico-cristiano” a Buenos Aires nel luglio di quest'anno ha evidenziato che le nostre reciproche relazioni non sarebbero state possibili senza un forte supporto a livello locale.
Tra i nuovi sforzi da intraprendere, vorrei accennare soltanto a due di essi.
Prima di tutto inizierò col menzionare l'instaurazione di relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e lo Stato di Israele (1993) preparate e rese possibili da un precedente “Accordo fondamentale”. Negli anni tali relazioni sono state abbastanza salde e hanno resistito alle difficili pressioni e addirittura alle profonde tensioni nel contesto del conflitto israelo-palestinese che coinvolge anche i cristiani della Terra Santa. Questa resta una sfida continua e possiamo solo sperare in una imminente soluzione, giusta e pacifica, che possa essere nell'interesse di tutte le parti.
Nonostante il contesto di questa drammatica situazione, ci ha dato gioia iniziare un dialogo ufficiale ebraico-cristiano in Israele che include membri provenienti da Israele, nominati dal Gran Rabbinato, e rappresentanti del Vaticano. Siamo convinti che le armi non possono risolvere il conflitto. Esse nutrono solo l'odio da ambo le parti e istigano un continuo cerchio di violenza. Non c'è alternativa al dialogo; esso è un processo che rispetta gli interessi legittimi di entrambe le parti e mira alla riconciliazione e ad una pace sostenibile.
È stato ancora più difficile affrontare la seconda sfida per il dialogo: la riflessione sulla Shoah. La Shoah è stata un’indicibile tragedia e un'atrocità di proporzioni senza precedenti, un genocidio avvenuto in Europa che solleva molti interrogativi e alla fine lascia senza parole. Per gli ebrei la memoria, il ricordo della Shoah, con la conseguente uccisione di milioni di ebrei, divenne un comune punto di riferimento e un elemento costitutivo della loro identità. Per i cristiani divenne l'oggetto di un profondo pentimento che, attraverso la riflessione teologica, è diventato un punto di partenza per la conversione e per l’instaurazione di nuove relazioni con il popolo ebraico.
La nostra Commissione ha raccolto queste sfide. In seguito alla pubblicazione di importanti dichiarazioni da parte di alcune Conferenze Episcopali e dopo lunghe discussioni e controversie, la Commissione ha pubblicato il suo documento forse più importante, “Noi ricordiamo” (1998). Il testo è stato accolto con rispetto, ma ha anche incontrato una dura critica da parte del mondo ebraico. Non è questo il contesto per ripetere tutte le argomentazioni pro e contro. Ripeto solo ciò che il mio predecessore, il Cardinale Cassidy, disse: “Questa è la prima, non l'ultima parola”. Ma chi avrebbe il coraggio di dire l'ultima parola? Alla fine dobbiamo rimanere tutti in silenzio per rispetto alle vittime e per l'insondabile mistero del Dio nascosto. È solo Dio che può e dirà l'ultima parola alla fine dei tempi.
Questo non ci esonera comunque dal fare ciò che in effetti possiamo fare. Ci sentiamo senz’altro obbligati a compiere tutto ciò che è possibile per prevenire una tale atrocità nel futuro, e quindi a capire le circostanze storiche per quanto sia possibile, non per accusare e rimproverare o difendere e scusare, ma per imparare e mettere in pratica quell'insegnamento per il futuro.
III. Impegni e sfide per il futuro
Vorrei concludere con alcune osservazioni sulle sfide e sugli impegni per il futuro. All'inizio ho affermato che la costituzione della nostra Commissione è stata solo l'inizio di un nuovo inizio. Ancor oggi, dopo trent'anni da quel memorabile nuovo inizio, siamo ancora all'inizio. Permangono problemi difficili e sorgono nuove sfide.
In primo luogo, tra i gravi problemi che ancora persistono ci sono problemi storici che riguardano la storia comune, spesso difficile. Inoltre oltre all'impatto ebraico nella storia, nella liturgia, nello studio della Bibbia cristiana, ma anche nella letteratura, nella filosofia e nell'arte, c'è anche la meno nota influenza cristiana sull’ebraismo, che si costituì nella sua forma rabbinica post biblica dopo la distruzione del tempio in opposizione alla Cristianità, ma nonostante ciò ricevette più tardi ancora l'influenza cristiana. Oltre alle questioni dell'Olocausto, c'è ancora molto lavoro di ricerca che deve essere compiuto.
In secondo luogo ci sono ancora problemi teologici fondamentali. Siamo ancora lontani da una teologia del Giudaismo. Il problema di una o di due alleanze e ciò significa la relazione teologica tra il Giudaismo e la Cristianità rimane aperto. Ebrei e cristiani, con tutto quello che hanno in comune, sono e rimangono su posizioni diverse nelle concezioni fondamentali che sono costitutive delle loro rispettive identità. Quindi non dovremmo accostarci al dialogo ebraico-cristiano con aspettative ingenue di una comprensione armoniosa. Il dialogo ebraico-cristiano rimarrà un dialogo difficile.
Proprio quando non ignoriamo semplicemente la nostra diversità, ma piuttosto la “comprendiamo”, solo allora possiamo imparare l'uno dall'altro. C'è ancora una considerevole ignoranza da entrambe le parti e l'ignoranza è una delle radici del pregiudizio reciproco. Per questa ragione attualmente stiamo considerando il modo di includere alcune conoscenze basilari del Giudaismo nella formazione dei futuri sacerdoti; allo stesso modo la formazione dei futuri rabbini dovrebbe includere alcune conoscenze basilari della Cristianità.
Come terzo e ultimo punto, che per me in questo momento e in questo contesto è il più importante, vorrei accennare alla cooperazione pratica. Penso che una cooperazione pratica, sociale e caritativa, come l’abbiamo intrapresa sia stata il più importante passo e il vero progresso che abbiamo fatto a Buenos Aires. Insieme abbiamo iniziato e siamo riusciti ad aiutare i bambini che più soffrono a causa della terribile crisi economica in Argentina e speriamo che in futuro tali attività possano svilupparsi anche in altre parti del mondo. La tradizione rabbinica ha espresso ciò che si vorrebbe attuare in questa frase: “Colui che ha salvato un essere umano ha salvato il mondo”.
Ebrei e cristiani – nemici da tanto tempo se non addirittura indifferenti l'uno all'altro – dovrebbero sforzarsi a diventare alleati. Hanno un enorme patrimonio comune da salvaguardare: la comune concezione della persona umana, la sua dignità unica e la responsabilità davanti a Dio, la comprensione del mondo come creazione, il concetto di giustizia e di pace, il valore della famiglia, la speranza della salvezza definitiva e della sua realizzazione.
In questa prospettiva il nostro dialogo in futuro non dovrebbe solo trattare di questioni religiose di principio; neppure dovrebbe essere dedicato solo alla comprensione del passato. Il nostro patrimonio comune dovrebbe essere adoperato con vantaggio in risposta alle sfide contemporanee: la santità della vita, la protezione della famiglia, la giustizia e la pace nel mondo, il problema del terrorismo e l'integrità della creazione, per citare solo alcune sfide. Dopo la tragedia della Shoah, sia ebrei che cristiani sono chiamati ad intervenire responsabilmente nel prevenire una nuova e simile catastrofe umana.
“Il nostro impegno è passare alle nuove generazioni i tesori e i valori che abbiamo in comune, così che l'uomo non possa mai più disprezzare il proprio fratello e i conflitti o le guerre non possano mai più scatenarsi nel nome di un'ideologia che disprezza una cultura o una religione. Al contrario, le diverse tradizioni religiose sono chiamate a mettere il loro patrimonio al servizio di tutti nella speranza di costruire insieme la comune casa europea, uniti nella giustizia, nella pace, nell'equità e nella solidarietà” (Giovanni Paolo II al Congresso europeo ebraico-cristiano, Parigi, 28-29 gennaio 2002).
Ebrei e cristiani insieme possono soprattutto mantenere la speranza. Perché dalle amare e penose lezioni della storia, essi possono testimoniare che – nonostante la diversità e l'essere “estranei” e nonostante la colpa storica – la conversione, la riconciliazione, la pace e l'amicizia sono possibili. Possa quindi il nostro secolo diventare un secolo di fratellanza – spalla a spalla, l’uno accanto all’altro. Shalom!
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Inserito 01/01/1970
Relazioni Ebraico-Cristiane
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