L’immagine del altro - Commissione di dialogo ebraico-cattolica di Svizzera

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Commissione di dialogo ebraico-cattolica di Svizzera

Svizzera       02/03/2006

Sommario
Introduzione

Adrian Schenker
L’Altro nella Bibbia ebraica: il Decalogo alla luce della legge del Sabbat

Benedict Thomas Viviano
L’“Altro” nel Nuovo Testamento

Simon Lauer
L’“Altro” nell’antico pensiero ebraico

Jean Halpérin
La relazione all’Altro

Ernst Ludwig Ehrlich
La tolleranza verso lo straniero nella Bibbia ebraica e nel giudaismo

Verena Lenzen
Salvaguardia di sé e apertura all’Altro. Dal dialogo giudeo-cristiano

Rudolf Stichweh
L’essere straniero nella società umana: indifferenza e simpatia minima
Presidenza e Membri della Commissione di dialogo ebraico-cattolico romana
(CDEC)

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L’immagine dell’altro

Introduzione

Ciò che è sgradito a te, non lo fare al tuo prossimo.
Questa è la Legge, il resto non sono che commenti. Vai e impara.
(Talmud babilonese, Sabbat 31a).

La regola d’oro di Hillel il Saggio definisce nel giudaismo la relazione interpersonale e serve anche ad altre culture e religioni, quale indicazione per definire umanità e saggezza. Il dovere di amare il prossimo e lo straniero, così come il comandamento di prendersi cura della vedova, dell’orfano, del povero e dello straniero hanno il loro fondamento nella Bibbia ebraica, nella letteratura rabbinica e nel Nuovo Testamento. Ma qual è il significato di “Altro” nelle fonti giudaiche e cristiane? E’ amico, compagno, vicino, fratello, prossimo, straniero o nemico? Nella Bibbia e nella letteratura rabbinica, l’“Altro” non è ancora visto nel senso della filosofia giudaica moderna, che lo vede come un “Mitmensch” (letteralmente “l’uomo con il quale mi trovo”) nel senso etico e religioso (Hermann Cohen), come l’“Altro” che mi impedisce di uccidere (Emmanuel Levinas), come il “tu” che costituisce il mio io (Franz Rosenzweig; Martin Buber). Le tradizioni
bibliche e pre-giudaiche concordano tuttavia con il pensiero contemporaneo che legge il termine come “di fronte all’Altro”.

Solo il conoscere e il riconoscere l’“Altro” conducono, in campo interreligioso, a una percezione differenziata dell’ebraismo da parte dei cristiani e del cristianesimo da parte degli ebrei.

Il saggio “L’Immagine dell’Altro” si basa su uno scambio di riflessioni della Commissione di Dialogo ebraico-cristiana e della giornata di studio tenuta il 21-22 marzo 2004 in collaborazione con il Centro di studi Lassalle di Bad Schönbrunn/ZG. Ringraziamo tutti i relatori e gli invitati per le loro osservazioni e riflessioni.

Il tema dell’Altro e dello straniero suscitano un crescente interesse nelle diverse sfere della società, della politica, delle arti e delle scienze. Noi possiamo solo sfiorare questa problematica. La scienza biblica, giudaica, interreligiosa, filosofica e sociologica getta uno sguardo sulle immagini dell’“Altro” e sulle sfaccettature dello straniero e si interpella sulla loro validità oggi. In questo contesto, è purtroppo impossibile studiare la questione considerando tutte le dimensioni e
secondo la prospettiva della scienza politica, della ricerca antisemita, della psicologia, della questione femminile e delle religioni mondiali. Speriamo tuttavia che l’immagine abbozzata dell’Altro trovi una eco sulla piazza pubblica e serva come riferimento per le comunità e le scuole ebraiche e cristiane.

L’anno 2005 è posto sotto il segno del ricordo e della memoria.
La seconda guerra mondiale è terminata 60 anni fa. Il movimento di costruzione del dialogo ebreo-cristiano, nato all’ombra della shoah, della persecuzione e dell’estinzione dell’ebraismo europeo, si basa sulla conoscenza, la comprensione delle altre religioni e la riconciliazione fra ebraismo e cristianesimo. Con la dichiarazione Nostra aetate, che spiega la sua posizione verso le religioni non
cristiane, la Chiesa cattolica ha innescato 40 anni fa, durante il Concilio Vaticano II, la ripresa e il rinnovo delle relazioni con il popolo ebreo, il giudaismo e Israele.
In Germania, la Chiesa evangelica ricorda soprattutto la decisione sinodale renanica Il rinnovo delle relazioni fra cristiani e ebrei di 25 anni fa. Dal punto di vista ebraico, la dichiarazione Dabru Emet (Dite la verità) ha dato, 5 anni fa, degli impulsi per un dialogo teologico fra ebrei e cristiani.

In Svizzera, da 15 anni, esiste la Commissione di Dialogo ebraico-cristiana (CDJC) che riunisce uomini di scienza e persone impegnate nel dialogo ebreocristiano e i cui scopi sono l’informazione sull’attualità e le pubblicazioni ebraiche e cristiane, le reazioni agli avvenimenti politico-sociali, discussioni su temi religiosi
e filosofici che trattano del giudaismo e del cristianesimo. Le pubblicazioni preparate dalla Commissione Antisemitismo: peccato contro Dio e l’umanità (1992); Dichiarazione della Conferenza dei Vescovi svizzeri sul comportamento della Chiesa cattolica in Svizzera verso il popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale e oggi (2000); Dichiarazione contro il terrorismo e la violenza
(2002), sono state ampiamente divulgate. Ringraziamo i membri della CDJC, il Prof. Alfred Donath e il Vescovo Kurt Koch, la Federazione svizzera delle Comunità Israelitiche (FSCI) e la Conferenza dei Vescovi svizzeri (CVS) per l’incoraggiamento a questa pubblicazione.

In un’epoca confrontata al fenomeno dell’antisemitismo, del razzismo e dell’odio verso lo straniero, noi seguiamo la via del rispetto reciproco e della comprensione dell’ebraismo e del cristianesimo. Esprimiamo all’“Altro” la nostra riconoscenza.
L’immagine dell’Altro non può essere che un inizio, perché queste immagini devono lasciare spazio all’inafferrabile, a questa scintilla viva e divina che è nell’uomo. Lo scrittore Max Frisch ha trasferito il problema del divieto di crearsi un’immagine, dai valori culturali e teologici alla sfera umana e psicologica: “è
scritto: non crearti immagini di Dio. Questo potrebbe valere anche nel senso: Dio vive in ogni uomo, è ciò che è inafferrabile. E’ una trasgressione che commettiamo pressoché di continuo e che ci è inflitta a nostra volta – Eccetto quando amiamo”.

Per la Commissione di dialogo ebraico-cristiana Prof. Ernst Ludwig Ehrlich, co-presidente Prof. Verena Lenzen, co-presidente

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L’Altro nella Bibbia ebraica: il Decalogo alla luce della legge del Sabbat
Adrian Schenker

1. Introduzione e procedura: un passaggio concreto

Un concetto così vasto e astratto come l’“Altro” non è mai veramente tematizzato, nemmeno nella Bibbia. Si tratta quindi di riunire delle idee o delle forme dell’“Altro” partendo dall’insieme degli enunciati biblici concreti, come uno scultore che per creare una scultura parte dal blocco di materia prima. La via più semplice
per raggiungere questo scopo è la scelta di un passaggio rappresentativo che offra una visione della relazione all’“Altro” nella Bibbia ebraica.

E’ importante scegliere un paragrafo che abbia un significato riconosciuto nella Bibbia stessa. Per diverse ragioni, il Decalogo e, fra le righe, i comandamenti del sabbat, rappresentano da sempre un passaggio notevole della Scrittura. Ecco dunque i versetti scelti in Es 20,8-111:
8. Ricordati del giorno del sabbat, per santificarlo.
9. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro;
10. ma il settimo giorno è il sabbat (consacrato) in onore del Signore, tuo Dio. Non farai alcun lavoro, tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo servo e la tua serva, il tuo bestiame, il forestiero che sta dentro alle tue porte.
11. Perché in sei giorni il Signore fece il cielo, la terra, il mare e tutto quello che è in essi, ma il settimo giorno si riposò: perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabbat e l’ha santificato.

2. Sviluppo dell’interpretazione in sette tappe

2.1 Modo di interpretazione

L’esposizione che segue rinuncia volutamente alla storia scelta ed esposta. Tali studi esistono 2 e il contesto storico evidentemente vi si collega. L’interpretazione qui espressa, o piuttosto abbozzata, si basa sulla supposizione che ogni dichiarazione concreta indichi, al di là del suo primo significato, anche fatti basati sulla nostra esperienza. La Scrittura lo chiarisce in modo nuovo per rendercelo più percettibile.

2.2 Santi

Il termine indica un divino “Altro” che prende una parte del mio tempo. Ora, il mio tempo è la mia vita, perché tempo e vita sono contemporaneamente co-estensibili e si rassomigliano. Io non sono padrone unico del mio tempo e quindi della mia vita. Il divino “Altro” può richiederne un tributo e io lo devo pagare.

Vorrei prendere la parola Sabbat nel senso del vecchio vocabolo tedesco: “festeggiare”, lasciar riposare il lavoro. E’ il significato più antico del termine Sabbat. Per la storia della religione ha il significato di un giorno tabù, chiuso al
lavoro ma anche per accendere il fuoco (Es 35,3).

Quale è il legame fra le due cose? Lavorare e accendere il fuoco: entrambi trasformano il mondo. Il giorno del sabbat il mondo torna al punto di partenza, prima che il Creatore ne lasciasse la gestione all’uomo. E’ restitutio in integrum o meglio ancora: restitutio originis. L’origine si perde nell’attività del tempo e la
cancella e noi dobbiamo sottometterci e abbandonare la presa. La santificazione del giorno del sabbat ci unisce alle origini della nostra creazione che dimenticheremmo se non avessimo questa fermata obbligatoria. La contemplazione del ricordo delle nostre origini e la nostra riconoscenza si trovano espressamente nella santificazione del tempo. La nostra origine, diversa da noi stessi, rappresenta, in questa immagine, l’“Altro”.

2.3 Lavoro , opera

“Lavoro, opera” significano produttività e guadagno. L’“Altro”, il mondo, va oltre l’uso che ne traiamo. Il suo senso non si esaurisce nella sua utilità.
Il lavoro partecipa alla produttività della natura, alla moltiplicazione dei frutti, delle cose, della proprietà, delle merci. Senza questo apporto delle forze di crescita della natura legata a ogni forma di lavoro, l’opera umana sarebbe impossibile e
irrealizzabile. Il lavoro è quindi sempre una benedizione, perché la benedizione è una moltiplicazione offerta, e non costruita, di vita, di frutti e di merci. E’ pure una speranza concreta perché nessuno lavorerebbe senza aspettarsi un compenso.
In esso si materializza gran parte della dinamica della vita.

Ma è limitato, rende ciechi a tutto ciò che si trova al di fuori del suo campo. Il profitto esercita un potere tirannico sui lavoratori. Lavoro e opera, per quanto creativi, minacciano la libertà. Affinché l’“Altro”, che non apporta né guadagno né rendimento, non sia dimenticato, o addirittura respinto e distrutto, è indispensabile
delimitare il lavoro.

2.4 Tu, tuo figlio e tua figlia

“Tu e tuo figlio e tua figlia”: queste tre categorie di persone definiscono l’individuo e la sua comunità diretta (parentela), che rappresenta anche il potenziale di lavoro in essa contenuto.

Abbiamo sempre notato che manca la donna e madre del Paterfamilias
israeliano. La sola spiegazione soddisfacente è, fra l’altro, che la donna non deve lavorare in posizione inferiore a quella dell’uomo, e questo non solamente nel giorno del sabbat, ma anche negli altri giorni della settimana(3). Questa liberazione della donna dal processo del lavoro è un segno della ricchezza e anche della
benedizione delle famiglie israeliane nella terra promessa. Per la donna ogni giorno è sabbat (4).

Il processo del lavoro deve fermarsi di fronte a persone che beneficiano di posizione e dignità particolari. L’”Altro” appartiene, secondo le circostanze, a un rango diverso dal nostro. La nozione di “Altro” può contenere l’eccezione. Deve accogliere quello che noi e altri non possiamo accogliere.

2.5 Il tuo servo e la tua serva, lo straniero che sta dentro le tue porte

Queste categorie comprendono gli uomini come forza lavoro e fonte di energia. Rappresentano tuttavia più di questo, anche se non appartengono al medesimo gruppo (famiglia, popolo, stato, ecc.). Hanno diritto al riposo, perché il riposo racchiude un’altra ragione d’essere oltre alla prestazione e alla produttività.
La libertà su una parte del tempo del sabbat è un diritto. Riposo e libertà si uniscono, come espresso dal linguaggio comune “Abbiamo libero”. La libertà è quindi un diritto fondamentale che non deve mai essere né perso né ripreso. L’“Altro” deve poter “usare” in parte la sua libertà; è questa che manifesta la sua differenza.

2.6 E il tuo bestiame

Le creature rappresentano più della semplice utilità che portano e simbolizzano più della semplice proprietà di colui che ne ha il possesso. Poiché dipendono dal loro proprietario, egli deve loro uno spazio di libertà che limita il suo diritto di proprietà. Anche se l’uomo è superiore, la creatura sottomessa ha diritto al riposo. La relazione fra i due non deve essere definita dal potere effettivo del
proprietario.

Gb 39 parla di un valore degli animali superiore a quello della loro utilità per l’uomo. La loro bellezza e i loro giochi divertenti costituiscono senza dubbio degli attributi preziosi, senza utilità diretta per l’uomo: l’animale è un animal ludens.

2.7 Cielo e terra, il mare e tutto quello che contiene

Il cielo, il mare e il suo contenuto rimangono spazi tolti all’uomo. Quest’ultimo non è quindi una misura del cosmo. Il mondo non è solo umano; è l’“Altro”, più grande di lui. Gli uomini non hanno accesso totale alla casa dell’universo. Le sue dimensioni glielo impediscono: l’universo è l’“Altro” nel senso dell’inaccessibile e
dell’irraggiungibile nello spazio e nel tempo.

2.8 Benedire

Forza della vita, sviluppo, protezione, salute, pace si ritrovano nella benedizione.Questi elementi non si producono e non si commerciano. Sono dei doni per i quali siamo debitori degli altri. Noi siamo riconoscenti verso l’“Altro”, verso gli Altri. La benedizione è questa essenza di vita da cui noi dipendiamo ma che dobbiamo accettare come un regalo. La benedizione diventa l’“Altro” senza cui la vita è indispensabile.

3. Osservazione: l’“Altro” come nemico

Tenendo conto del peso dato al conflitto in Medio Oriente a proposito del dialogo ebreo-cristiano e della lotta contro l’antigiudaismo e l’antisemitismo, è necessario approfondire una riflessione sull’Altro in quanto nemico. Egli è colui che mi
rinnega. Il nemico non vuole riconoscere la mia esistenza. Ma come dobbiamo interpretare l’orrore di questa inimicizia? In essa si nascondono il male e l’irrazionale che cercano la nostra comprensione. La Bibbia ebraica parla spesso di nemici e di inimicizia. Forse dobbiamo imparare a conoscere questi passaggi
ed interpretarli in modo diverso? Ne nascono due punti di vista: la lotta necessita di una posizione etica e l’inimicizia ci riporta a Dio in quanto unico salvatore.

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1 Gli ottanta libri della Sacra Scrittura. Secondo i testi masoretici. Scritti da Dr. Zunz tradotti da H. Anheim, Dr. Julius Fürst, Dr. M. Sachs (Berlino: edizioni von Veith & Com., 1848), 71.

2 Bibliografia a scelta: J.H. Stamm, Der Dekalog im Lichte der neueren Forschung. 2., durchgesehene und erweiterte Aufl. (Bern-Stuttgart: Verl. Paul Haupt, 1962); J.H.Stamm, M.E.Andrew, The Ten
Commandments in Recent reserch (Studies in Biblical Theol., 2nd Series, 2; London: SCM Press, 1967); Sch. Ben-Chorin, Die Tafeln des Bundes. Das Zehnwort vom Sinai (Tübingen: Mohr, 1979); F. Crüsemann,
Bewahrung der Freiheit. Das Thema des Dekalogs in sozialgeschichtlicher Perspektive (Kaiser Traktate, 78;
München: Kaiser Verl., 1983); B.-Z.Segal, Hrsg, The Ten Commandments in History and Tradition (Publication of the Perry Foundation for Biblical Research: The Hebrew University of Jerusalem;
Jerusalem: Magnes Press, 1990); D.N.Freedman, The Nine Commandments. Uncovering the Hidden Pattern of Crime and Punishment in the Hebrew Bible (New York: Doubleday, 2000).

3 A. Shenker, “Der Monotheismus im ersten Gebot, die Stellung der Frau im Sabbatgebot und zwei andere Sachfragen zum Dekalog”, A. Schenker, Text un Sinn im Alten Testament. Studi dei testi storici e biblici (OBO 103; Friborgo Svizzera: éditions de l’Université; Göttingen: Vandenhoeck & Ruprecht, 1991), §87-205; 194-197.

4 Prv 31, 10-31 non è contro, ma pro questo significato perché la donna virtuosa dirige una casa importante e commercia, cosa che si oppone a un lavoro sottomesso come quello del personale di servizio e degli animali domestici.

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L’“Altro” nel Nuovo Testamento
Benedict Thomas Viviano

Questo tema attira la nostra attenzione su uno dei passaggi centrali del Nuovo Testamento. Ecco alcune delle espressioni principali da esaminare: allos, allogenos (l’altro, lo straniero, Lexique théologique du Nouveau Testament I: Büchsel), heteros (l’altro, TWNT II: Beyer) e soprattutto plesion (vicino, TWNT VI: Fichtner-Greeven), ma anche adelphos (fratello), agape (amore), philia (amicizia), dikaiosyne (giustizia).

Il contributo più importante si trova nell’insegnamento di Gesù sull’amore per i nemici e la rinuncia alla violenza (Mt 5,38-48). Poiché anche Luca (6,27-37) parla di questo insegnamento, si pensa generalmente che faccia riferimento alla fonte chiamata Q (dal tedesco Quelle = fonte) e che sicuramente è nato dalla
storiografia di Gesù. Forse Gesù, in quanto figlio di Davide o Messia, riprende l’esempio del suo regale predecessore Davide e lo sviluppa, Davide che – secondo 1 Sm 24,1-23 e 26,1-25 – risparmia due volte la vita del suo nemico Saul. (Nell’esegesi moderna, questa protezione ripetuta è considerata come un doppione. Ma per gli antichi, la ripetizione di un passaggio produceva un effetto di
accentuazione, come se lo scrittore volesse sottolineare il fatto).
L’insegnamento di Gesù sull’amore verso il nemico è stato respinto da Friedrich Nietzsche come una morale schiavista nata dal risentimento dei poveri. Questa tesi è stata negata più tardi da Max Scheler. L’insegnamento di Gesù non è una morale schiavista, ma una preziosa filosofia di eroi, un gesto regale come mostra l’esempio del re Davide.

Questo insegnamento è vigorosamente accentuato nella scena del tribunale in Mt 25,34-46: “Allora il Re dirà loro: ‘In verità vi dico: tutto quello che avete fatto a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me’ (v. 40)”. Questo versetto pone la domanda di chi sia il “fratello”. Probabilmente questa parola assume tre significati diversi in Matteo:
a) un consanguineo;
b) un membro della comunità cristiana;
c) l’oggetto del mio dovere etico.
Questo terzo significato sembra essere stato scelto dall’evangelista, affinché ogni
persona in pericolo si ritrovi in questo passaggio. Si può rifiutare questa applicazione universale del testo, perché essa ricorda troppo il cosmopolitismo e la posizione dell’uomo del XVIII secolo. Ma una tale definizione dell’umanesimo cosmopolita esisteva già 200 anni prima di Gesù fra gli stoici, che hanno creato la parola cosmopolita (= cittadino del mondo). I libri della Bibbia ebraica e alcuni
dotti pre cristiani giudaici, per es. Hillel (morto circa nel 10 dopo Cristo) rivelavano già questo pensiero.

D’altra parte, l’esperienza ci insegna che un universalismo o cosmopolitismo troppo unilaterale può escludere ogni uso spirituale. Questo può generare una coscienza antiebrea, come nel secolo dell’illuminismo (p. es. Voltaire).(Montesquieu ne fu una degna eccezione).

Gli elementi irritanti nei Codici dei sacerdoti (sorgente P) devono essere rispettati, anche se non si condividono le direttive; per es. la pena di morte troppo spesso citata (per la proibizione del sabbat: Es 31, 15; 35,2; Nm 15,32-36).

Simile punto di vista è sostenuto dalle parabole del buon samaritano (Lc 10,29-37) e del lebbroso (Lc 17,11-19), così come dalla storia della donna samaritana(Gv 4,1-42) e del generale romano (Mt 8,5-13; Lc 7,1-10; 13,28-30; Gv 4,46-54).
Come Gesù prega affinché Dio perdoni i suoi carnefici (Lc 23,34), così prega Stefano (At 7,60). Gesù protegge l’adultera (Gv 7,53-8,11). Giovanni insiste sull’amore dei fratelli, ma questo amore è generalmente limitato ai membri della comunità. Gli stessi limiti si applicano probabilmente all’insegnamento dell’amore fraterno nella prima lettera di Giacomo (1 Gc 2,7-11). Questo dà all’insegnamento
di Giovanni, dal profilo etico, un’implicazione minore rispetto a quella della tradizione sinottica. Gesù insegna anche che le maggiori leggi della Torà sono quelle dell’amore di Dio e del prossimo (Mt 22,34-40; Mc 12,28-31; Lc 10,25-28, sostenuto da Dt 6,5 e Lv 19,18). Questo legame dell’amore di Dio e del prossimo,
questa composizione di Dt 6,5 e Lv 19,18, non è usuale nella tradizione ebraica prima di Gesù. Questo legame sembra essere tipico di Gesù. Tuttavia, il commento di Filone di Alessandria sul Decalogo associa le due leggi come un riassunto delle tavole dei dieci comandamenti, che riuniscono così i doveri verso Dio e verso il prossimo. Il secolo gaonico (VII – XI secolo) rivela nei Rabbini
questa combinazione nella Torà Sefer Pitron. Esiste un testo simile nel codice della santificazione in Lv 19,16b: “Non coopererai alla morte del tuo prossimo”; alcune traduzioni moderne traducono: “Non devi guadagnare sul sangue di tuo fratello”. Ma i Rabbini post-biblici danno una interpretazione più esatta: “Non devi restare inattivo se la vita del tuo prossimo è minacciata” [NAB, sorretto da bSan73a]. Questa traduzione richiama l’impegno evidente ad aiutare colui che si trova in pericolo di morte. Tale obbligo non è, a mia conoscenza, trasmesso nella morale cristiana, se non nel comandamento di amare il prossimo.

Questo importante insegnamento del Vangelo dell’amore per il prossimo è rafforzato negli scritti del Nuovo Testamento. Paolo ci insegna che l’amore per il prossimo è la legge principale (Rm 13,8-10; Gal 5,14). Dedica inoltre un poderoso inno all’amore in quanto grazia e dono spirituale superiore (1 Cor 13).
In Rm 1-3, mostra un panorama dell’umanità, parimenti peccatrice davanti a Dio, che si tratti di ebrei o di pagani, passaggio che concorda con i profeti ebrei che accusano in ugual misura i pagani e il popolo eletto (per es. Am 1,2-2,16). Tali serie d’immagine danno l’impressione di andare oltre l’etica e la teologia etnocentriche verso un punto di vista universale che proclama Dio come il
creatore e il salvatore dell’umanità. Esiste quindi un certo insegnamento di uguaglianza del bisogno e della speranza per tutta l’umanità. Questo punto di vista addolcisce il limite rigoroso che separa l’“Altro” da noi stessi ed è espresso in Rm 9-11, dove Paolo propone una visione di speranza per salvare definitivamente i suoi avversari, gli ebrei non cristiani. Su un altro registro, Paolo
si sforza di superare le tensioni fra poveri e ricchi all’interno della comunità cristiana:
a) in 2 Cor 8,13-15 si basa sulla direttiva che regge la distribuzione della manna (Es 16,18);
b) durante l’ultima cena in 1 Cor 11,17-34. Un pensiero simile, del povero e del ricco, si forma in Gc 2,1-9 che vi oppone la
legge dell’amore. Eb 13,2 ci invita a esprimere la nostra ospitalità agli stranieri (xenoi), e non solamente ai nostri amici e vicini (vedi Lc 14,12-14).
Tuttavia, per scrupolo di sincerità, ci vediamo obbligati a contrapporre a questo insegnamento di sensibilità e di apertura al prossimo alcuni passaggi bui. Vediamo prima di tutto le critiche contro gli scribi e i farisei (Mt 23 e Lc 11). Si tratta evidentemente di esempi di polemica in seno al medesimo gruppo etnico, ma le parole dure utilizzate sono suscettibili – in un altro contesto – di generare disprezzo e diffidenza. Secondo Gv 2,13-22, Gesù caccia i commercianti dal tempio con l’aiuto di uno staffile, un cattivo esempio che contraddice l’insegnamento di Gesù contro ogni violenza. Questo quadro può servire da equivalente cristiano al sacrificio al dio moabita Baal-Peor (Nr. 25). Qui, Phinées,
figlio del sacrificatore Aaron, squarciò con la lancia un israelita di nome Zimri e sua moglie, la madianita chiamata Cozbi. Dio stipulò un’alleanza con Phinées, perché egli aveva agito animato dallo zelo per il suo Dio. Martin Hengel vede in questo la nascita del violento zelotismo ebreo. E’ un testo pericoloso. Anche se in Gv 2,13-22 non ci sono assassini, resta comunque un esempio difficile da interpretare. I capitoli 5, 7, 8, 9, 10 del Vangelo di Giovanni evocano la tenace polemica fra Gesù e alcuni dirigenti ebrei.

Il culmine è raggiunto nell’accusa di Gesù in Gv 8,44 che dice ai suoi nemici: “Voi avete come padre il diavolo, e volete compiere i desideri di vostro padre”. Anche Paolo si permette, nella sua prima opera scritta, un commento pertinente (1 Tess 2,15-16), che addolcisce immediatamente.

Un altro testo difficile chiarisce la passione di Gesù in Matteo: “E tutto il popolo rispose: che il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli!” (Mt 27,25). Questo versetto ha portato al popolo ebreo numerose sofferenze durante i secoli. E’ un versetto pericoloso. Nel suo film sulla passione di Cristo, Mel Gibson, colpito da esso, ha lasciato queste parole in aramaico, senza tradurle neanche nei sottotitoli. Come evitare la minaccia che esce da queste parole? Si dice che sono state pronunciate da esseri umani, mentre le parole di Dio dicono: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, che è sparso per tutti, per il perdono dei
peccati” (Mt 26,28). (Per il modo in cui gli ebrei non cristiani sono rappresentati nel NT, vedi il documento della Pontificia Commissione biblica, Il Popolo Ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, Roma 2001, III parte, par. 66-87,
una sintesi benefica e incoraggiante).

Per Emmanuel Levinas, l’“Altro” può esprimersi nel viso accogliente di una donna (madre, amante, sposa), nelle gioie della vita familiare o in un matrimonio. Il NT è pieno di questi testi; vi si trova la scena di tenerezza ai piedi della croce (Gv 19,25-27), le nozze di Cana (Gv 2,1-12), quando Maria di Betania unge Gesù (Mc
14,3-9; Mt 26,6-13; Lc 7,36-50; Gv 12,1-8), le preoccupazioni dei genitori anziani(Mc 7,10-12), i lamenti delle donne (Lc 23,27-31) e l’esaltazione del matrimonio(p. es. Eb 13,4; Ef 5,21-33). La preoccupazione per i genitori anziani e infermi mostra che Gesù non era fondamentalmente contro la famiglia, anche se esigeva di lasciare la propria per coloro che diventavano suoi discepoli (p. es. Lc 14,26 e 18,29).

Speriamo che la nostra valutazione abbia evidenziato molti aspetti positivi e che abbia pure chiarito quello che il NT nasconde nell’immagine dell’Altro. L’insegnamento e la pratica di Gesù (sulla croce, in Luca) culminano nell’amore verso i nostri nemici. Resta tuttavia una tensione fra lo statuto radicale del discepolo e una vita di famiglia normale.

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L’ “Altro” nell’antico pensiero ebraico
Simon Lauer

Da quando la nozione dell’“Altro” si è concettualizzata, da quale momento è entrata nei costumi? Secondo Levinas, sembra che l’“Altro” divenga un tema solo dopo la metà del XX secolo. E’ utile citare Hermann Cohen che ha radicato il significato dell’“Altro” nel pensiero filosofico (con la nozione di “Mitmensch”) una
trentina d’anni prima e cioè dalla sua abilitazione nel 1888 alla sua ultima opera del 1918.

Nel giudaismo dell’epoca (se è permesso riassumere), l’“Altro” prende una doppia valenza, di Ebreo e di non Ebreo. In entrambi i casi, l’“altro” può essere un individuo o rappresentare un gruppo; così, un povero può essere trattato come individuo o come appartenente ad uno strato povero della popolazione. Vedremo
pure che la definizione dell’“Altro” in quanto non Ebreo non è sempre così semplice.

Le riflessioni giudaiche – riguardanti anche problemi attuali – devono essere fatte con l’aiuto di testi rabbinici tramite la Bibbia. Non si tratta qui di un’esegesi biblica, ma piuttosto del modo con cui le fonti giudaiche hanno dato vita all’“Altro”.
Evidentemente, nella Bibbia vi sono diverse espressioni per indicare l’“Altro”; in nessun caso si può riprendere la semplice parola ha-acher.

Classico è in Lv 19,18 il passaggio che non ha mai veramente permesso di precisare il significato del termine rea’. Mi sembra appropriato paragonare due lessici. Gesenius (13.ma edizione, 1899) parla di “compagno... amico... termine indebolito o insignificante di “Altro”... p.es. Gdt 6,29”. Jona ibn Ganach (Spagna, XI secolo), che ha fortemente influenzato gli interpreti ebraici, propone nella sua opera Sepher ha schoraschim (ed. W. Bacher, Berlino 1896, p. 482) che rea’ designi anche il non ebreo (nokhri) (vedi Es 11,2).

Per capire il rapporto verso l’“Altro”, è importante fare una traduzione adeguata del verbo kamokha nel medesimo versetto. “Egli è come te”, divenuto nel frattempo una definizione, rimanda al commento di Hartwig Wesselys (non la traduzione) alla traduzione del Pentateuco di Moses Mendelssohn. Nella traduzione biblica di Buber e Rosenzweig, si dice – anche se non espressamente – “uguale a te”. Ma nella prefazione di Buber a proposito di una scelta degli scritti
di Hermann Cohen editi nel 1935 (il prossimo), si legge in seguito: “Sii gentile con l’ospite come se fosse uno dei tuoi”.

Es 23,4.5: quale sarà il mio comportamento con l’“Altro”, se si presenta a me come nemico? Il versetto ebraico non è semplice da capire come sembra: come interpretare il participio? Il pronomen suffixum è soggettivo o oggettivo? Secondo il commento talmudico Torà temima di Baruch Epstein (2.a edizione, Wilna 1904), il verbo sonaakha al versetto 5 è colui “che ti odia”; devi “sottomettere i tuoi impulsi”, non opporgli il tuo odio (vedi bBM 32b fin). L’esposto di Epstein sulle forme del participio – attivo o passivo – non è così evidente: in Is 41,8 Abramo è colui che ama Dio oppure è amato da Dio?

La necessità di dominare le proprie pulsioni è citata anche nel targum (Onkelos e Jonathan – ho a disposizione solo il testo della Bibbia rabbinica) al versetto 5, come la traduzione di ‘azov ta’azov.

I due targum non si differenziano fra “nemici” e “colui che odia”. Ma Gionatan interpreta nei due versetti il pronome: “che tu odi a causa di una colpa che solo tu conosci”.

In Mekhilta de Rabbi Yishmael (ed. Horovitz/Rabin, p. 324), sono citate molte possibilità di dare un significato a “nemico” nel versetto 4: l’interprete più antico (verso l’anno 300), pensa ad un servitore di un falso dio non ebreo; circa 200 anni prima, in Rabbi Elizer, si tratta di un proselito tornato alla sua religione d’origine e in Rabbi Yizchaq di un apostata del giudaismo (negli ultimi due casi, si tratta di Ebrei poiché questo statuto è un character indelebilis). Per concludere, Rabbi Nathan (verso 135) cita: per lui, il nemico è un Ebreo che ha fatto torto ad altri ed
è diventato “ad un certo momento” un nemico. Gli autori citati non traggono conseguenze morali di nessun genere, mi sembra tuttavia che si tratti di un climax: l’inimicizia non esiste solo fra i non Ebrei/servitori di falsi dei e gli Ebrei (che sarebbe tipica), ma anche fra gli Ebrei stessi. Si capisce altrove come comportarsi in simili circostanze. Facciamo riferimento ad un altro passaggio
(ibidem, ultima riga): Es 23,4 parla del perdono di chi ha sbagliato, come in Dt 22,2 “fino a quando il tuo fratello lo reclamerà (derosh)”, che vuol dire – come direbbe Makhilta de Rabbi Yishmael: “finché tu cerchi tuo fratello (tidrosh)”.
L’“Altro” nemico in quanto gruppo ci sorprende in Dt 23 e anche lì si tratta di osservare le differenze. Nel versetto 4, è scritto che nessun Ammonita né alcun Moabita deve appartenere alla comunità dell’Eterno. Il versetto 8, invece, ci insegna che gli Edomiti e gli Egiziani non devono essere odiati e possono essere
integrati nella comunità, dopo una breve attesa. Sifre Deuteronomium § 252 spiega la differenza in due modi: Edom è il fratello di Israele, l’Egitto era suo ospite – poco importa che fosse per generosità o per utilità. Per quel che concerne Edom, una precisazione interessante in rapporto al motivo per cui
Edom merita di essere notato fra i commentatori di Pentateuco Ha’ameq davar di Naftali Zevi Jehuda Berlin (XIX secolo): rimandando a Dt 2,4, Berlin sviluppa l’idea che la designazione di fratello si applichi solo alla parte dei discendenti di Esaù che abita a Canaan, vicino a Israele (vedi più sotto la storia tratta da Qoheleth Rabbati).

Evidentemente gli appartenenti a una comunità nemica possono apparire come individui. Il Midrasch Qoheleth Rabbati, del periodo che va dal VI all’VIII secolo, racconta una serie di storie a proposito di Qo 11,1, di cui le prime tre parlano di un naufragio. Nella terza, che corrisponde a grandi linee alla seconda, si racconta
di Rabbi Elazar ben Schammua’ (II secolo), che è stato testimone di un naufragio all’epoca in cui gli Ebrei solcavano i mari. Un uomo ha potuto salvarsi facendosi passare per il “discendente di Esaù, loro fratello (sic!), pregava i passanti di vestirlo, ma fu respinto bruscamente. Ma Rabbi Elazar, a cui si rivolse, venne in
suo aiuto generosamente. Il Romano divenne in seguito imperatore e decretò che gli uomini della Giudea dovessero essere uccisi e le donne rapite. Gli fu mandato Elazar ben Schammua’ e dovette ascoltare le seguenti argomentazioni: sono un discendente di Esau, vostro fratello che voi non odierete. Gli Ammoniti e i Moabiti
sono per sempre esclusi dalla vostra comunità per non aver dato pane e acqua. Voi non mi avete testimoniato un atto di amore e così facendo avete trasgredito le leggi della Torà e meritate la morte. Rabbi Elazar non poté aggiungere niente, se non domandare grazia all’imperatore che lo aveva riconosciuto come suo benefattore e gli accordò la grazia”.

In un’epoca in cui le relazioni fra Roma e gli Ebrei erano estremamente tese (Rabbi Elazar ben Schammua’ era stato allievo di Rabbi Aqiva), un Ebreo reagì in modo diverso all’apparizione di un naufrago, anche lui nel rispetto della proibizione della Torah. Che il suo comportamento fosse ricompensato ugualmente dal suo popolo può essere considerato come un’aggiunta di “fabula docet”. L’insegnamento è chiaro, non ci sono dubbi, tanto più che Rabbi Elazar, nel circolo dei Rabbini, godeva di grande notorietà (vedi in proposito M. Braunschweiger, Die Lehrer der Mischna, 2.a edizione, Francoforte sul Meno 1903, p. 38f). Mi sembra di trovare qui il pensiero dell’“Altro”, come si trova nel pensiero ebraico moderno.

Le mie conoscenze lacunose, così come il pensiero volontariamente afilosofico dei Rabbini, come della Bibbia, non permettono di ritrovare nel campo qui trattato l’“Altro” in quanto “Mitmensch” nella comprensione etica e religiosa (Cohen), l’“Altro” che mi impedisce di uccidere (Levinas), “Tu” che costituisci il mio Io
(Rosenzwig). La Bibbia, come è interpretata dai Rabbini, sembra offrirmi una buona base per approfondire l’antica idea ebraica in rapporto all’età moderna.

***

La relazione all’Altro
Jean Halpérin

Esaminando lo stato attuale delle nostre riflessioni, sono dell’avviso di abbandonare le analisi di un solo autore. Tenterò piuttosto di esporre brevemente le ragioni che mi sembrano necessarie per chiarire la “relazione all’Altro”.
Nel suo discorso nella Grande Sinagoga di Roma del 13 aprile 1986, Papa Giovanni Paolo II evocò la necessità di riscoprire i valori racchiusi nei 10 comandamenti; menzionò precisamente la fonte ebraica del dovere di amare il prossimo e lo straniero (Lv 19,18 e 34), così come la radice ebraica del comandamento di aiutare la vedova, l’orfano, il povero e lo straniero (Dt 10,18). Il Papa ricordò anche il “shalom desiderato dai legislatori, i profeti e i saggi d’Israele”.

Nel Pentateuco l’attenzione verso lo straniero (ger) è evocata più di quaranta volte. La legge dovrebbe essere identica per lo straniero e per l’indigeno, argomentazioni trattate sia dalla fraternità umana che dalla comunità: “Perché tu eri straniero nel paese d’Egitto”. Il diritto di una persona esiste al di là della sua
appartenenza alla religione dello Stato. “Il monoteismo non è una aritmetica del divino. E’ forse il dono soprannaturale di vedere gli uomini tutti uguali, dietro la differenza di tradizioni storiche che ognuno perpetua. E’ una scuola dell’amore dello straniero e dell’antirazzismo”.1

Per questo motivo le religioni monoteiste devono lottare insieme, di comune accordo – e non l’una contro l’altra – per sviluppare i diritti dell’uomo. Religione e diritti dell’uomo non si contraddicono ma si incontrano al servizio della dignità
della persona umana. Questa è l’unica via capace di sbarrare il cammino alla violenza e, allo stesso tempo, è il modo più sicuro di dare al dialogo interreligioso un senso e uno scopo.

Il mondo in cui viviamo sarebbe più sopportabile se tutti, ogni gruppo, ogni Stato rispettasse la “regola d’oro” formulata da Hillel il Saggio: “Ciò che è sgradito a te, non lo fare al tuo prossimo. Questa è la Legge, il resto non sono che commenti.
Vai e impara”. (Talmud babilonese, Sabbat 31a). Questa regola fondamentale della saggezza e delle relazioni interpersonali, accettata con le sue interpretazioni da tante civilità e che fa parte del retaggio dell’umanità, può e deve essere presa sul serio in ogni momento e in ogni situazione. Come raggiungere questa perfezione? Le famiglie spirituali possono contribuirvi? Non è nostra
responsabilità?

Come dice Emmanuel Levinas, gli obblighi verso l’“Altro” (per quanto distante e diverso egli possa essere) nascono dagli obblighi verso l’Onnipotente o, più esattamente: l’“Altro” è la via verso il sacro. L’unico modo per rispettare Dio è quello di rispettare l’“Altro” e: “La vera relazione fra l’uomo e Dio dipende da una relazione fra uomo e uomo per la quale l’uomo assume la sua piena responsabilità come se non esistesse un Dio su cui contare.”2

Nella relazione verso l’“Altro”, è essenziale rispettare anche il secondo insegnamento di Hillel: “Non giudicare il tuo prossimo finché non sei stato al suo posto” (Talmud babilonese, Trattato Awoth 2,5). Lo sappiamo: spesso è difficile mettersi totalmente al posto degli altri; tuttavia questo non deve liberarci dallo sforzo di impegnarci in tutto per provare a capirlo, come se fossimo al suo posto. In questo contesto, anche se si tratta di un esempio particolarmente delicato, lo stato attuale del conflitto fra Israeliani e Palestinesi in Medio Oriente potrebbe trovare una nuova via di soluzione se i protagonisti riuscissero a mettersi gli uni al
posto degli altri. Il viaggio interreligioso ad Auschwitz, organizzato da Padre Emile Shoufani di Nazareth, apre questa prospettiva.

Riflettiamo sull’aspetto imperativo della responsabilità che crea la vista dell’“Altro”, come cita Levinas: “Il senso svegliato dal viso” dell’“Altro” “mi interroga, esige la mia presenza, mi invita”. Non devo vedere nell’“Altro” un avversario, ma un richiamo che mi aiuti a meglio essere uomo sotto lo sguardo dell’Onnipotente.3

Nella preoccupazione dell’“Altro”, i profeti ebraici – per riprendere la formulazione di Vladimir Soloviev – sono sia dei grandi patrioti che degli universalisti autentici. Nessuno è veramente patriota se non è prima pacifista.

La preoccupazione per l’“Altro”, vale a dire il rifiuto di guardare solo a se stessi, appare molte volte nella nostra liturgia. Non prego solo per me stesso né unicamente per la mia comunità o il mio popolo, ma per il mondo intero. La prima benedizione della preghiera del mattino (“che ha dato al gallo la facoltà...) è la più
universale che si possa immaginare. Esistono numerosi esempi di preghiera su “tutto ciò che è vivente”, “ogni bocca”, “ogni bisogno”. Quando recito l’azione di grazie dopo i pasti, non dimentico la fame dell’“Altro” e prego affinché sia rifocillato.

Dovremmo forse interrogarci sul posto dell’“Altro” nella preghiera e nella sottomissione?
La forma paradigmatica di nostro padre Abramo ci insegna prima di tutto e soprattutto l’evidente dovere di accoglienza in ogni senso verso ognuno, chiunque sia. L’inizio del capitolo 18 della Genesi ci dice chiaramente che Abramo esprime con l’accoglienza riservata ai tre nomadi del deserto – certamente tre beduini – nella sua tenda aperta sui quattro punti cardinali, la presenza di Dio. Quando pianta un tamarindo a Beerscheva, riassume le condizioni dell’accoglienza: dare da mangiare, da bere e un alloggio, immagine
del sostantivo Eschel (Gen 21,33).

La nostra relazione con Abramo crea un dovere per coloro che si dichiarano di discendenza comune. Non devono dimenticare che il titolo di nobiltà da loro reclamata si giustifica unicamente con gli obblighi che esso richiede e con il modo in cui loro rispondono a queste esigenze.

L’“Altro” non può essere colui che respingiamo o che tentiamo di escludere, ma colui che cerchiamo di integrare. Per sottolineare maggiormente la relazione con l’“Altro” occorre ascoltare Hillel: “Se io non sono per me, chi lo sarà? E se non penso che a me stesso, chi sono? E se non ora, allora quando?” (Talmud babilonese, Trattato Awoth 1,14). Così, diventa urgente che concetti così gravi di senso come shalom e Ubuntu (nel mondo africano sud sahariano) diventino concreti e operativi.
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1 Emmanuel Levinas: Liberté difficile. Essai sur le judaïsme. Francoforte sul Meno 2.1996, 126.

2 Vgl. Emmanuel Levinas, La laïcité et la pensée d’Israël, in : Les imprévus de l’histoire, Montpellier 1994, 161.

3 A questo proposito si veda anche una dissertazione, presentata nel 1999 all’Università di Utrecht, da Annette
Ravestein-Geerse in teologia: De Roepende (L’appelant, une étude théologique sur le caractère d’appel de la
relation entre Dieu, l’autre et moi). Vedi anche: Pierre Bouretz, Les chemins de la paix : L’horizon messianique
de la responsabilité, in: La responsabilité: Utopie et réalité, 38 Colloqui degli intellettuali ebrei di lingua
francese, Ed. Jean Halpérin/Nelly Hansson, Parigi 2003, 31-46 ; vedi anche Henri Cohen-Solal, Il Chema Israël,
ibidem, 65-78.

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La tolleranza verso lo straniero nella Bibbia ebraica e nel giudaismo
Ernst Ludwig Ehrlich

Cominciamo con l’osservare la Bibbia ebraica. Un passaggio chiave si trova in Lv 19,33s. Il testo dice: “Se verrà a stabilirsi presso di voi uno straniero, non molestatelo. Come un oriundo tra di voi sarà colui che viene a stabilirsi presso di voi. Lo amerai come te stesso, perché voi siete stati immigrati nella terra d’Egitto.
Io sono il Signore Dio vostro”. Questo testo, qualunque sia il tempo della sua redazione, somiglia a molti altri passaggi riguardo agli stranieri nella Bibbia ebraica. Il Deuteronomio riveste in questo contesto una grande importanza (14,21; 15,3; 17,15; 23,21). Distingue due classi di stranieri: il nokhri e il ger. Il nokhri è lo straniero che non coltiva relazioni stabili con il paese o la sua
popolazione, è di passaggio con la sua carovana e si occupa dei suoi affari. Non ha bisogno di compassione, di aiuto, di uguaglianza. Inoltre, nel medesimo ordine di idee, esiste anche una categoria di stranieri che vivono alla corte dei re d’Israele, per esempio presso Salomone e Ahab. La cerchia di Davide contava i cretesi e i pletesi, i mercenari che egli stesso aveva ripreso dai filistei.
Diversi sono i criteri per definire il ger. Prima dell’esilio, il ger rappresentava un cittadino protetto, arrivato da un paese straniero, che dipendeva dalla protezione giuridica degli indigeni. Per la difficoltà data dalla posizione sociale, i gerim appartenevano, come le vedove e gli orfani, alle “personae miserabiles”, sotto la protezione divina. Il 5° libro di Mosé (10,18) definisce Dio come colui che “concede all’orfano e alla vedova un diritto e che ama lo straniero, fino a donargli
del pane e dei vestiti”. Antiche formule mettevano fin da allora in guardia dall’opprimere lo straniero (Es 22,20; 23,9). Quello che sembra un avvertimento prende la forma di un comandamento: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,34). I riguardi verso il ger si rafforzano ulteriormente nel Deuteronomio e nelle altre direttive di ordine legale. Attraverso queste ultime, il ger diventa a poco
a poco un membro della comunità giuridica e culturale israelita, per confondersi poi con i proseliti del giudaismo ellenista. La traduzione greca della Bibbia ebraica è caratteristica. Nella Settanta, il ger ebraico è spesso reso con la parola proselytos.

Una delle ragioni quasi esistenziali che dona senso all’amore per lo straniero, risiede nello stato permanente degli Israeliti essi stessi stranieri (gerim) in Egitto.
Questa visione ancorata nella coscienza di Israele ingenera richiami suscettibili di essere d’aiuto allo straniero (Es 22,20, 23,9; Dt 10,19; 24,18). Troviamo qui una comprensione della propria storia che non trova uguale nel contesto di Israele. La liberazione dall’Egitto ha creato una identificazione di Israele con lo straniero, essendosi lui stesso sentito straniero di fronte a Dio:

“Ascolta la mia preghiera o Signore,
porgi l’orecchio al mio grido d’aiuto;
davanti alle mie lacrime non restartene muto.
Poiché un pellegrino io sono presso di te,
un forestiero come tutti i miei padri” (Sal 39,13).

Lo straniero fa parte del giudaismo post-biblico, soprattutto giudeo-ellenistico, in Filone e Giuseppe. E’ scritto in Filone: “Vedi dunque come questa straordinaria grazia del legislatore implica prima di tutto gli uomini, senza distinzione che siano stranieri o amici...” (De Virtutibus). In Giuseppe, è scritto: “Inoltre, è nostro dovere principale tendere ad ogni momento una mano. Dobbiamo dare, a colui che è nel bisogno, dell’acqua, del fuoco, del cibo, mostrargli il cammino, non lasciare nessuno senza sepoltura” (Apion 2,29).

Lo sviluppo della parola ger, largamente diffusa nella tradizione rabbinica, testimonia l’amore per il prossimo e per lo straniero. Può essere uno straniero
pagano o chiunque non sia convertito al giudaismo, vista la facilità con la quale il giudaismo accoglieva i non ebrei fino al IV secolo. Il cristianesimo vittorioso in questa epoca ha modificato la situazione. La prova che lo straniero è incluso nel comandamento di amare di Lv 19,18 e che quest’ultimo si rivolge all’uomo in generale, ci è data dal testo di Ben Asai: “Esiste ancora un fondamento più importante nella Torah, è il libro della creazione dell’uomo” (Sifra a proposito di Lv 19,18). Il comandamento d’amare è indirizzato all’uomo. Di conseguenza il Talmud dice molto giustamente: “Ci si prende cura collettivamente dei poveri dei
pagani tanto quanto dei poveri degli Israeliti; si curano i malati dei pagani così come quelli degli Israeliti; si seppelliscono i morti dei pagani come i morti degli Israeliti” (Gittin 61a).

Queste riflessioni si sviluppano ancora nel medioevo. Maimonide parla dello straniero in questo modo: “Bisogna amare anche il ger (lo straniero) che è venuto per mettersi sotto la protezione di Dio (Schechina). Se ne sviluppano due comandamenti divini: egli fa parte dei prossimi, è uno straniero, e la Torah ha ordinato (Dt 10,19): ‘Voi amerete lo straniero. Egli (Dio) ha comandato di amare lo straniero come Lui stesso, poiché è scritto (Dt 6,5): Amerai l’Eterno tuo Dio’”, e anche Dio ama gli stranieri, poiché è scritto (Dt 10,18) ‘Egli ama gli stranieri’” (Mischne tora hilchot deot VI,4).

Inoltre è evidente per Maimonide che il ger, se diventa proselito, può considerarsi come un Israelita perché è nostro padre Abramo che ha insegnato al popolo, l’ha portato alla conoscenza e gli ha dato la vera fede come l’unicità di Dio. Di conseguenza, un proselito può pregare: “Dio è Dio dei nostri padri, perché Abramo è tuo padre” (risposta al proselita Obnadja).

Nella sua opera Exclusivness and Tolerance, 1961, p. 114-128, Jacob Katz si è interrogato sul Rabbi Menahem Ha-Me’riri, un maestro del XIV secolo (morto nel 1315 circa). Rabbi Menahem Ha-Me’iri era sicuramente uno dei rari Rabbini del medioevo ad aver sviluppato la teoria di una tolleranza religiosa. Si sforza di rimanere nell’ambito della legge religiosa di Halacha, anche se si discosta
dall’opinione di altri halachisti. Ha-Me’iri distingue i popoli del tempo talmudico dai non ebrei contemporanei. Questa differenziazione gli permette di fissare un confine, definisce i suoi contemporanei dei popoli limitati dalla religione (ummoth hageduroth be-darekhey hadathoth). Questo non vale per quelli del tempo talmudico. Tanto Ha-Me’iri parla, in termini negativi, dell’esclusione dei cristiani
dalla categoria dei servitori di falsi dei, tanto definisce delle categorie positive.
Egli dona loro così uno statuto religioso vantaggioso. L’attitudine peggiorativa manifestata dai saggi talmudici contro i servitori dei falsi dei non è sensata, poiché non esistevano praticamente più servitori di falsi dei al tempo di Ha-Me’iri.
La condotta di Ha-Me’iri è spiegata da un esempio: è scritto in Mischna di non affittare la propria casa ad uno straniero. Ha-Me’iri constata: “Questa proibizione si applica solo ai servitori di falsi dei che tengono i loro falsi dei nelle loro case e offrono loro dei sacrifici”. Numerosi esempi fanno constatare ad Ha-Me’iri: se,
all’epoca talmudica, i non ebrei non erano uguali sul piano legale e morale agli Ebrei, non meritavano nessun trattamento favorevole: “... ma ogni persona appartenente in quell’epoca ai popoli già citati (ummoth ha-geduroth be-darekhey hadathoth) non è toccata da queste decisioni anteriori, e deve essere considerata
come interamente ebrea”. Ha-Me’iri distingue quindi fra i popoli antichi e i cristiani e musulmani della sua epoca.

E’ chiaro che il concetto espresso (ummoth ha geduroth) da cui Ha-Me’iri ha tratto le sue conclusioni, non è scaturito da Halacha, ma dall’ambito del pensiero filosofico e teologico. Ha-Me’iri è membro della scuola razionale secondo Maimonide. Tuttavia, Ha-Me’iri va oltre Maimonide che non conferisce al cristianesimo un pieno valore monoteista. Per Ha-Me’iri basta che le altre religioni abbiano delle guide che instaurino delle istituzioni politiche e definiscano delle
leggi. Per questa ragione queste religioni possono capirsi senza rivelazioni in senso strettamente teologico e riconoscere la divinità – o credere all’esistenza di Dio, alla sua unicità e alla sua potenza, anche se su certi punti della loro fede hanno una valutazione errata. La valutazione positiva di Ha-Me’iri del
cristianesimo proviene soprattutto dal rispetto della conservazione delle istituzioni legali e dello standard morale nella società.

Se si analizza il rapporto della teoria di Ha-Me’iri, si tratta in fondo di un’evoluzione del ger toshav già trattato nella Bibbia e nelle letteratura talmudica, un non ebreo che ha abbandonato i falsi dei e rispetta le leggi noaiche. Tuttavia, questa rappresentazione non basta per i non ebrei al tempo di Ha-Me’iri, egli doveva distinguere le nazioni antiche da quelle del suo tempo. All’inizio, Ha-Me’iri include anche l’islam nella sua concezione, ma si preoccupa particolarmente del cristianesimo che conosce già per esperienza.

Dà prova di una visione interessante verso gli uomini che lasciano la religione ebraica e si dichiarano Israeliti: sono degli eretici. Ma se qualcuno lascia il giudaismo e diventa membro di un’altra religione, va rispettato in quanto tale, anche se lui o lei non potrà sposarsi con un Ebreo o con un’Ebrea. Una tale visione, che procura alle altre religioni uno statuto positivo, è unica in questa
forma e proviene certamente dai circoli illuminati della Provenza ai quali apparteneva Ha-Me’iri. Egli, tuttavia, non fu solo in questo caso, usando a volte l’espressione “i miei insegnanti”. D’altra parte, intratteneva relazioni con un erudito cristiano.

L’idea di tolleranza di Ha-Me’iri non ci permette di concludere che egli fosse insensibile alla solidarietà con il suo popolo. Ma è un risultato notevole l’aver sviluppato un principio di tolleranza e creato una concetto intellettuale.
Nel XX secolo, è Hermann Cohen che tratta del soggetto nel suo libro Religione della ragione dalle fonti dell'ebraismo (Religion der Vernunft – aus den Quellen des Judentums, 2.a edizione 1929). Poiché Hermann Cohen ha concepito la nozione di Mitmensch e ne ha fatto un valore etico, poteva includere lo straniero.
Cohen insegna che il giudaismo, nella Bibbia, attribuisce l’uguaglianza delle leggi allo straniero. Il diritto deve essere uniforme per tutti, poiché proviene da Dio.
Cohen pensa che il giudaismo ha sviluppato un’altra nozione della parola ger. Si tratta dei “popoli credenti del mondo” (Chaside umot haolam). Questa nozione fa riferimento ai popoli esterni a Israele ed è assente dalla religione di Israele.
D’altra parte, si riconosce anche ai non ebrei la loro rigidità. Per concludere Cohen scrive (p. 144):

„In diesen Ausgestaltungen aber bewährt sich unzweideutig der wahrhafte Sinn des Gebotes der sogenannten Nächstenliebe. Wäre dieser Nächste in der ursprünglichen und in der durchwaltenden Bedeutung der Volksgenosse gewesen, so hätte niemals aus dem Fremdling … der rein theoretische Begriff des Frommen der Völker der Welt entstehen können. Aber sogar auch der Fremdling ist noch nicht der letzte Quell dieser Entwicklung, der vielmehr im Monotheismus selbst zu erkennen ist. Aus dem einzigen Gotte, dem Schöpfer
des Menschen, ist auch der Fremdling, als Mitmensch, hervorgegangen.“
Come ultimo testo, citiamo il concetto di Leo Baeck che si esprime così nella sua opera principale L’essenza del Giudaismo (Das Wesen des Judentums, 4.a edizione 1925, p. 219s ).

„In der Pflicht gegen den Fremdling ist die unbedingte Menschenpflicht am bestimmtesten erfasst worden. Der Fremdling hat die Humanität gelehrt, an ihm ist der Mensch als Glied der Menschheit immer wieder klar erkannt und gewissermassen aufgedeckt worden. Wie sicher dieses Verständnis gewesen ist, zeigt sich daran, dass es einen politischen Begriff geschaffen hat, den der
Noachiden, einen Begriff, durch den Sittengebot und sittliche Ebenbürtigkeit in ihrer Unabhängigkeit von allen nationalen und konfessionellen Grenzen auch rechtlich dargetan werden. Ein Noachide, ein Sohn Noahs, ist jeder im Lande, wes Glaubens und wes Volkes er sei, der die elementarsten Pflichten übt, welche sich aus der Menschlichkeit und der Landeszugehörigkeit ergeben. Und jeder
Noachide, so ist die Satzung, hat nicht nur Duldung, sondern Anerkennung zu beanspruchen; er ist rechtlich jedem Staatsbürger gleichgestellt; er ist ‚unser Fremdling‘. Hiermit ist der staatliche Rechtsgedanke emanzipiert, aus aller politischen und kirchlichen Verengung herausgehoben und auf den rein menschlichen Boden gestellt. Ein Grundbegriff des Naturrechts ist damit gewonnen, und die grossen Forscher des siebenzehnten Jahrhunderts, die dem
Völkerrecht neue Erkenntnis schufen, ein Hugo de Groot, ein John Selden, haben voller Bewunderung von ihm, dem Fremdling aus dem Talmud, erfahren, und ihn dankbar in ihre Systeme aufgenommen. In ihrem Natur- und Völkerrecht nimmt er einen wichtigen Platz ein.

Dass die Anerkennung des Menschen von anderem Glauben und anderem
Stamm, so wie sie hier rechtlich festgelegt worden ist, auch ihren eigentlich religiösen Ausdruck gefunden hat, ist schon früher gezeigt worden, wo es den universalen, humanen Charakter des Judentums aufzuweisen galt. Er bestimmt auch die innere Achtung vor dem Fremden, die Achtung vor seiner Seele.
Gegenüber dem Glauben des anderen ist jenes Wort gesprochen worden, das vieles befasst und das wie ein Bekenntniswort geworden ist: ‚die Frommen unter den Heiden haben Anteil an der ewigen Seligkeit‘. Die Frömmigkeit ist hier von der Konfession unabhängig gemacht. Das Verständnis für das Recht des Fremden erhebt sich zur Anerkennung des Sittlichen, Religiösen, das in ihm ist, zur Anerkennung dessen, was in jedem Menschen als sein Innerliches leben kann. Jedem steht in seines Lebens und seines Glaubens Bezirk der Weg dazu offen, dass er ein Frommer wird. Das Menschentum wird zum Entscheidenden, es wird zum Bestimmenden für diese wie für die kommende Welt. Im Leben der Ewigkeit wird es keinen Platz des Fremdlings geben, sondern nur den Platz des Frommen.“

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Salvaguardia di sé e apertura all’Altro. Sul dialogo giudeo-cristiano
Verena Lenzen

L’autore e critico israeliano Yoram Kaniuk definisce il dialogo giudeo-cristiano come “l’avvenimento più importante” del XX secolo.1
La percezione cristiana del giudaismo di questi ultimi decenni può essere valutata solamente considerando i due millenni trascorsi. Solo prendendo coscienza di una storia che ha sconvolto profondamente le due religioni fratricide è possibile capire la svolta verso l’apertura e il rispetto fra Ebrei e cristiani.

La Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane Nostra aetate del 28 ottobre 1965 fornisce un “quadro dentro il quale si definiscono i rapporti della Chiesa con le religioni non cristiane in generale”2 e con il giudaismo
in particolare. L’articolo 4 è esaustivo: parla della relazione fra giudaismo e cristianesimo.3 La fede, le scelte e la missione della Chiesa, trovano radice in Israele, sorgente della Chiesa degli Ebrei e dei pagani. Nei figli di Abramo, tutti i credenti si ritrovano, secondo la loro fede, nella vocazione di questo patriarca. La
Chiesa non è legata al popolo ebraico unicamente attraverso i patriarchi, l’Antica Alleanza e il Nuovo Testamento, ma anche attraverso la nascita fisica di Gesù, gli apostoli e la maggior parte dei primi discepoli.

La visita di Giovanni Paolo II alla grande Sinagoga di Roma nel 19864 costituisce un’altra tappa del riavvicinamento fra Chiesa cattolica e ebraismo. Così pure l’Accordo fondamentale fra la Santa Sede e lo Stato di Israele nel 19935, il pellegrinaggio del Papa in Terra Santa nel 20006 e le preghiere di perdono7 recitate dal supremo rappresentante della Chiesa cattolico-romana il 12 marzo
2000 davanti al mondo intero. Le sette preghiere di perdono, testimonianza morale, pastorale e liturgica della riconciliazione, meritano di essere qualificate come avvenimenti storici.8

Da oltre cinque decenni, il ripristino delle relazioni fra cristianesimo ed ebraismo rappresenta un assillo teologico della Chiesa. La raccolta dei due volumi Les Eglises et le Judaïsme, limitatamente ai documenti ufficiali e il cui contenuto teologico evoca la questione giudeo-cristiana fra il 1945 e il 2000, si compone di quasi 2000 pagine.9

Ma fino a che punto queste spiegazioni sono capite dalla gente e cambiano la coscienza religiosa?

E’ incontestabile che il cristianesimo resta fondamentalmente debitore alla religione ebraica.10 Così, la Chiesa tocca con la sua riflessione teologica, la realtà e la tradizione del giudaismo. Il richiamo della vicinanza del cristianesimo al giudaismo ha aperto una nuova era nelle relazioni giudeo-cristiane. Questo processo ha sviluppato il rispetto per il popolo di Israele in quanto “popolo
dell’alleanza”;11 la conoscenza che Israele è il popolo eletto e scelto da Dio;12 la presa di coscienza delle radici ebraiche del cristianesimo e della Chiesa; la comprensione della vita di Gesù nel contesto del suo ebraismo contemporaneo; la riconoscenza della fede che ci lega ad un solo e unico Dio come creatore, guida e giudice del mondo; la riconoscenza dell’eredità comune nell’ethos e nella
liturgia; l’obbligo di approfondire la propria coscienza e di “purificare la propria memoria”;13 la condanna dell’antigiudaismo, dell’antisemitismo e del razzismo;14 il postulato della memoria per un miglior avvenire e l’azione di grazia dei cristiani difronte agli Ebrei.

Giovanni Paolo II ha definito la Shoah come “un delitto senza precedenti”.15 Di fronte a questa catastrofe inesprimibile, descrive l’incapacità di formulare a parole questo dramma singolare e cita nel contempo la necessità di preoccuparsi dell’aspetto scientifico, storico e teologico di queste memorie omicide.16 L’incomparabile sofferenza del popolo ebreo nella Shoah richiede una presa di
posizione necessaria per la protezione della vita e della dignità umana.

Nei primi anni del movimento di dialogo, si è particolarmente insistito su quello che unisce le due religioni, per superare questa “sozzura della storia” e ricordarsi l’eredità biblica collettiva. Oggi si è imposta una nuova prospettiva, che riconosce
ebraismo e cristianesimo come “culture di confronto”. Il loro rapporto è definito da “una relazione dualista intensa fatta di fascino e di avversione, di attrazione e di rifiuto” (Amos Funkenstein). Il denominatore comune del dialogo ebreo-cristiano,
troppo spesso interpretato come segno di uguaglianza, deve essere interrogato severamente, come hanno iniziato a fare Jean-François Lyotard e Eberhard Gruber nel 1995 nel loro libro Ein Bindestrich – zwischen “Jüdischem” und” Christichem”:17 il trattino nell’espressione “ebreo-cristiana” presuppone un’unione
che non esiste in questa forma. Il dialogo interreligioso deve giustificare questa relazione ambivalente fra giudaismo e cristianesimo, trovando non solo dei punti comuni dal profilo religioso, ma anche delle differenze teologiche.

L’inclinazione cristiana per la religione ebraica durante gli ultimi decenni rivestiva forse il carattere di una realizzazione di se stessi. In effetti, il cristianesimo ha sviluppato le sue conoscenze del giudaismo, assimilate alle proprie radici, riconosciuto lo statuto ebraico di Gesù e il valore dell’Antico Testamento come
Bibbia ebraica. L’autorità della Bibbia ebraica è riconosciuta attraverso due documenti della Pontificia Commissione Biblica: L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993) e Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana (2001).

Ebrei e cristiani non devono accettarsi sul giudizio della loro fede, ma sulla sua profondità e riconciliarsi gli uni con gli altri.18 La coscienza della propria identità religiosa e il riconoscimento del valore dell’Altro sono le condizioni per un dialogo autentico fra le religioni. Stabilità e capacità di creare e mantenere il dialogo, conservarsi e aprirsi all’Altro generano una tensione positiva suscettibile di essere gestita in modo sensibile nell’incontro ebreo-cristiano. L’autentico interesse per l’Altro impone allora un’attenzione che, conoscendo il proprio io, cerca di capire l’Altro nel suo modo di essere e nel suo valore, un’attenzione che non percepisce solo quello che si conosce, ma anche quello che non si conosce, e che l’accetta.
E’ così che il filosofo ebreo-egiziano Edmon Jabès scrive: “Nella sua volontà di essere, lo straniero ci insegna che non ci può essere conoscenza di sé senza una precedente accettazione di sé. (...) Riconoscendomi, l’Altro mi insegna a riconoscermi a mia volta (...).”19 Mentre lo straniero mi fa estraneo, mi apre alla mia esistenza, alla mia identità. E’ l’esperienza di esser diversi e stranieri che permette di essere se stessi e unici.

L’essenza del dialogo con l’Altro è descritta da Martin Buber nei suoi scritti Io e Tu: Ich werde am Du; Ich werdend spreche ich Du. Alles wirkliche Leben ist Begegnung“.20
_____________________________________________________________________

1Yoram Kaniuk, Dreieinhalb Stunden und fünfzig Jahre mit Günter Grass in Berlin, in: Die Zeit, n. 26 (21.06.1991), 53s.; 53.

2 A. Cardinal Bea, Die Haltung der Kirche gegenüber den nichtchristlichen Religionen, in: Stimmen der Zeit, tomo 177, anno 91 (1966), 1.

3 Vedi introduzione, 349–353, Sulla Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non-cristiane «Nostra aetate», in: Karl Rahner, Herbert Vorgrimler, Kleines Konzilskompendium. Tutti i testi del Vaticano II, Friburgo i.B. 221990, 355–359.

4 Vedi Rolf Rendtorff, Hans Hermann Henrix (editore), Die Kirchen und das Judentum, vol. I: documenti del 1945–1985, Paderborn, Gütersloh 32001, K.I.33: Discorso in occasione della visita della Grande Sinagoga a Roma il 13 aprile 1986.

5 Vedi Hans Hermann Henrix, Wolfgang Kraus (editore), Die Kirchen und das Judentum, tomo II: documenti del 1986–2000, Paderborn, Gütersloh 2001, K.I.27’: Accordo fondamentale del 30 dicembre 1993.

6 Vedi pellegrinaggio giubilare in Terra Santa. Omelie e discorsi di Papa Giovanni Paolo II in occasione della festa della memoria di Abramo e dei suoi pellegrinaggi al Sinai in Egitto e in Terra santa nell’anno 2000, Bonn 2000 (Verlautbarungen des Apostolischen Stuhls 145).

7 Vedi Giovanni Paolo II, Discorsi e preghiere di perdono, in: Commissione Teologica Internazionale, Memoria e riconciliazione. La Chiesa e le colpe del passato (2000), Einsiedeln, Fribourg 32000, 111–129; soprattutto 126.

8 Vedi ibidem 7–109.

9 Vedi Rolf Rendtorff, Hans Hermann Henrix (editore), Die Kirchen und das Judentum, tomo I: documenti del 1945–1985, Paderborn, Gütersloh 32001 (748 pagine); Hans Hermann Henrix, Wolfgang Kraus (Hrsg.), Die Kirchen und das Judentum, tomo II: documenti del 1986–2000, Paderborn, Gütersloh 2001 (1038 pagine).

10 Vedi Kurt Koch, Was bedeutet die Hinwendung der Kirchen zu ihren jüdischen Quellen für die christliche Ökumene heute?, in: Internationale Katholische Zeitschrift Communio, anno 29 (marzo/aprile 2000), 160–174; 162: L’autore indica «che il giudaismo può esistere senza il cristianesimo, ma quest’ultimo non può in ogni caso vivere senza il giudaismo, come i figli e le figlie non possono vivere senza la loro madre». Vedi Schalom Ben-Chorin, Weil wir Brüder sind. Zum christlich-jüdischen Dialog heute, Gerlingen 1988, 158: «Nella ricerca della propria identità, il cristiano deve incontrare il giudaismo come la radice della sua fede, mentre l’Ebreo non deve assolutamente incontrare il cristianesimo nella ricerca della sua identità ebrea». Per ragioni storiche e culturali, si può aggiungere che anche il giudaismo rimanda al cristianesimo.

11 Vedi Giovanni Paolo II, Discorsi e preghiere di perdono, 124: „IV. Schuldbekenntnis im Verhältnis zu Israel“: Per due volte, il popolo d’Israele è designato qui come «il popolo dell’Alleanza».

12 Vedi Catechismo della Chiesa cattolica, 250.

13 Vedi Giovanni Paolo II, Incarnationis mysterium. Bolla di indizione del Grande Giubileo dell’anno 2000 (29 novembre 1998), Art. 11). Nella sua bolla d’indizione dell’Anno Santo 2000, il Papa sottolinea la purificazione della memoria, per «vivere più intensamente la grazia straordinaria del giubileo».

14 Vedi fra gli altri la Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con il giudaismo, Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah (16 marzo 1998).

15 Giovanni Paolo II, 13 giugno 1991, citato nel messaggio dei Vescovi tedeschi in occasione del 50.mo anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz il 27 gennaio 1995, confermati il 23 gennaio 1995 a Würzburg. Testo integrale in: Herder Korrespondenz, anno 49 (1995), 133–136; 133.

16 Vedi anche Entrare nella speranza, Roma 1994, 124: «Auschwitz, probabilmente il simbolo più importante dell’Olocausto del popolo ebreo, dimostra fino a dove può arrivare un sistema basato sull’odio razziale e il potere. Auschwitz rimane ancora ai nostri giorni un avvertimento! Esso ricorda che l’antisemitismo è un peccato
commesso contro l’umanità; che ogni odio razziale porta inevitabilmente allo svilimento della dignità umana».
Vedi anche: Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con il giudaismo, Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah. La Shoah è citata qui come una “tragedia inesprimibile” (167), come «una delle più grandi catastrofi nella storia di questo secolo, un fatto che ci concerne ancora» (168), «la più grande delle sofferenze» (169, 177).

17 Jean-François Lyotard, Eberhard Gruber, Ein Bindestrich - zwischen „Jüdischem“ und „Christlichem“, Düsseldorf 1995.

18 Vedi Cardinale Joseph Ratzinger, Evangelium, Katechese, Katechismus. Streiflichter auf den Katechismus der katholischen Kirche, Monaco 1995, 63–83: Gesù di Nazareth, Israele e i cristiani. La loro relazione e la loro missione secondo il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992; 82.

19 Edmond Jabès, Ein Fremder mit einem kleinen Buch unterm Arm, Monaco, Vienna 1993, 113s.

20 Martin Buber, Io e Tu, Gerlingen 121994, 18.

***

Rudolf Stichweh
L’essere straniero nella società umana: indifferenza e simpatia minima 1

I L’alterità e l’estraneità

L’esperienza sociale dell’estraneità è diversa dall’alterità. L’alterità di un alter ego è un’esperienza indiscutibile e perciò definita come sociale e universale. Essa condiziona la mia identità a partire dalla differenza con l’“Altro”. L’estraneità esiste
quando l’alterità di un alter ego è sentita come una irritazione o un disturbo, un criterio pragmatico caratteristico per l’estraneità.

L’ambivalenza – intesa come significati contraddittori di un medesimo oggetto – e l’insicurezza rappresentano altri tipi di estraneità. Quest’ultima innesca in molti casi un bisogno d’agire. Non è possibile soprassedere al disturbo, si è piuttosto portati a innescare una reazione per assimilare o sopprimere questo malessere.
Due condizioni definiscono l’estraneità: le differenze sociali e quelle oggettive.2

L’esperienza della diversità può riferirsi ad un confronto sociale percepito come estraneo per le sue forme di espressione diverse e raffigurato quale oggetto sociale compatto. Fa riferimento alternativamente a differenze oggettive e ad incertezze ad esse legate. E’ possibile affrontare conoscenze estranee a se stessi (la matematica, l’informatica, la cultura degli Ittiti). Nelle due forme di estraneità, giocano un ruolo importante la distanza spaziale e quella temporale.
La distanza può far scattare l’estraneità quando dei millenni separano un individuo da una cultura straniera; ma può anche eliminare l’origine del problema, perché la separazione spazio-temporale annichilisce il bisogno d’agire.

Le riflessioni seguenti si concentrano sull’aspetto sociale dell’essere straniero, sul fatto che un individuo sia visto e classificato in una società o nei suoi confini come straniero. In questa descrizione si può includere una moltitudine di differenze
oggettive, tuttavia meno importanti nella percezione dell’Altro in quanto straniero.
Questa descrizione pone la questione dell’appartenenza nel sistema sociale. Se lo straniero ne fa parte, quali sono i limiti, ma anche i privilegi a lui riservati?3

II Semantica storica e varianti socio-strutturali dell’implicazione dello Straniero

Il discorso dello “straniero” rappresenta una semantica storica quasi universale per la quale troviamo esempi in una moltitudine di culture e di letterature.
Praticamente ogni società storica si è occupata della classificazione dei ruoli e degli statuti di membri per quanto riguarda gli stranieri. La maggioranza dei lettori conosce esempi di semantica dello straniero nell’Antico Testamento, nell’Iliade o
nell’Odissea: così, l’Antico Testamento esorta continuamente gli Ebrei ad accogliere lo straniero come un ospite perché loro stessi erano un tempo stranieri e schiavi in Egitto.4 Nelle formulazioni di questo genere, troviamo degli aspetti conosciuti della semantica dello straniero: le incertezze della propria vita (= il pellegrinare dell’uomo sulla terra) che in certi momenti fanno di ogni individuo uno straniero; la reciprocità fra esseri umani, basata su queste insicurezze; ma anche le ambiguità di trattamento verso lo straniero che si nutrono della speranza che egli potrebbe essere Dio travestito.

In questo testo non tratteremo questioni storiche, talvolta affascinanti, poiché qui si tratta di fare un’analisi della società mondiale odierna. Tratteremo invece il soggetto degli “stranieri nella società mondiale”, partendo da una piccola ricostruzione dei vari tipi di stranieri nelle diverse società.

Desidero differenziare cinque modi di percepire e trattare lo straniero. Metteremo così l’accento sul carattere analitico delle differenze riportate sotto. Non si tratta di una sequenza nella quale i tipi si collegano strettamente, essi appaiono piuttosto
uno vicino all’altro; si può ipotizzare che, in una determinata società, si possano osservare molti tipi di stranieri. Esistono innanzitutto delle società che non riescono a riconoscere lo straniero come tale. In questo caso, non ci sono né una reale irritazione né un bisogno di azione. Attorno agli anni 30, degli stranieri (in questo caso dei cercatori d’oro australiani) viaggiarono per la prima volta sugli altopiani della Nuova Guinea, che all’epoca si pensavano disabitati, ma che in realtà non lo erano. Si racconta che le tribù che incontrarono li riconobbero senza
esitazioni come vecchi membri della tribù, anche come membri della famiglia deceduti e ritornati.5 La tribù non reagì all’estraneità perché quest’ultima non rifletteva “l’immagine del mondo” delle società interessate.

Un secondo tipo di società registra il carattere destabilizzante proprio degli stranieri, ma si applica per far sparire immediatamente l’estraneità vissuta. Questi meccanismi vanno dall’espulsione o l’assassinio dello straniero fino al processo di
ammissione nella società sotto forma di riti di iniziazione e di adozione con legami di parentela; si tratta di eliminare dallo straniero ogni aspetto di estraneità.

Un terzo tipo è stato realizzato dai sistemi sociali stratificati che hanno dominato gran parte della storia della società negli scorsi millenni. Questi sistemi offrivano per la prima volta una pluralità di statuti possibili per gli stranieri che corrispondevano alla diversificazione della struttura sociale nelle società riunite.
Si distingueva fra stranieri interni ed esterni; fra stranieri aiutati, privilegiati o sottomessi; professioni e enclavi riservate agli stranieri e proibite agli indigeni;
stranieri posti là dove le interruzioni di comunicazione fra i gruppi sociali li rendevano indispensabili in quanto mediatori e altre varianti.

Il XIX e il XX secolo videro l’invenzione dello stato nazionale come forma politica universale, che portava ad una semplificazione radicale di questo campione di diversità e quindi una quarta forma di comportamento verso gli stranieri: al posto della pluralità degli statuti si installano delle classificazioni parallele che
distinguono gli indigeni, membri a pieno titolo dello Stato nazionale, dagli stranieri, a cui mancano le necessarie autorizzazioni. Senza lo Stato nazionale e la complessità dei diritti corporativi sui quali si basa, questa semplificazione della
molteplicità di stati non sarebbe stata possibile.

Parallelamente alla nascita dello Stato nazionale, troviamo la situazione che ci interessa particolarmente in quest’analisi e che espone il quinto tipo di classificazione sociale dell’estraneità. Alcuni Stati nazionali hanno già avviato il processo di affermazione della nuova forma di organizzazione politica che rappresentano, di cui fa parte la creazione di un sistema sociale universale nel
quale le esperienze vissute con gli stranieri si modificano largamente. In questo primo approccio, si può parlare di universalizzazione dello straniero.6 Nelle relazioni moderne cioè, per es. i contesti cittadini, la maggior parte delle interazioni avvengono con stranieri. La diversità dell’Altro diventa quotidiana ed evidente e perde il carattere destabilizzante e perturbante. Un’interpretazione alternativa parla della scomparsa dello straniero o della sua invisibilità. Pur ammettendo che esista un vero e proprio discorso sullo straniero che cerca di continuare in modo semantico il suo carattere di inquietudine, rende difficile
l’identificazione stessa dello straniero. Si tratta di tutta una serie di esperienze specifiche per la società mondiale odierna che devono essere maggiormente studiate. Una società mondiale implica l’universalizzazione delle comunicazioni accessibili a tutti; di conseguenza esiste sulla terra un solo tipo di società.7

III La normalizzazione della diversità: la struttura paradossale
dell’indifferenza

Verso la fine del XVIII secolo, scopriamo diagnosi che assomigliano a quelle già accennate. Edmund Burke cita, in un testo apparso nel 1796, l’unificazione del mondo europeo: “No European can be a complete exile in any part of Europe”.8
Questa frase, mi sembra, modifica profondamente la storia della società, più
profondamente della nascita dello Stato nazionale. Se nessun posto può essere considerato come un esilio totale, sembrerebbe che possa installarsi una familiarità verso ogni potenziale partner di interazione e in ogni luogo. Non è più identificabile un luogo preciso per l’estraneità nella circolazione sociale. Questo
vale almeno nell’ambito delle descrizioni prodotte dall’Europa per se stessa.
Si trovano facilmente altri indizi che comprovano questi cambiamenti. Citiamo fra l’altro l’idea predominante nel XVIII secolo secondo cui l’umanità presenta delle specificità di base comuni, valide soprattutto per l’estraneità e l’inimicizia,
osservabili empiricamente.9 La teoria della società non può più essere definita come teoria dell’amicizia, perché una tale visione farebbe supporre che esista una società esterna alla società (= altre società) la cui regola non sarebbe più l’amicizia, bensì l’estraneità e l’inimicizia. Al posto di una teoria di società detta
amichevole sono elaborati strati intermedi fra amicizia e inimicizia come prototipi per la socialità. Benjamin Nelson, il cui libro The Idea of Usury è interessante per l’analisi di questi cambiamenti, riporta alla teoria delle leggi scientifiche del XVI e XVII secolo (Alberico Gentili, Samuel Pufendorf) a cui attribuisce l’idea direttrice di una benevolenza calcolata come disposizione desiderata verso gli altri uomini, ma anche verso altri Stati.10 Questa formula è importante per il rapporto teso che si situa fra una disposizione calcolatrice con la quale si incontra l’Altro, e la benevolenza offerta a quest’Altro. Questo rapporto disegna la struttura paradossale dell’indifferenza.

Un secondo passaggio importante in questo contesto di semantica storica dell’indifferenza è la filosofia morale del secolo dell’illuminismo scozzese, fra il 1730 e il 1790. Per Adam Smith, soprattutto, la teoria della divisione del lavoro in quanto relazioni interscambiabili fra stranieri in una comunità commerciale, era racchiusa in una teoria di sentimenti morali che definivano le relazioni umane.11
Appare chiaro che le relazioni interscambiabili fra stranieri non possono essere accreditate a relazioni personali e di amicizia fra le persone interessate, ma sono premesse minime di fiducia e simpatia reciproca per prescindere dalle qualità personali dell’Altro, e quindi rimanerne indifferenti. Si vede qui ancora il
paradosso: una fiducia minima o una simpatia spontanea sono le condizioni affinché l’indifferenza non diventi poi un problema.

Qual’è la base socio-strutturale dell’indifferenza e cos’è esattamente “l’indifferenza”? Ai nostri giorni, il fenomeno di un sistema relazionale socialmente allargato, che non permette altro modo per incontrare le persone se non con indifferenza, ha sostituito la definizione data da cluster, che sottintende nemici e
amici, indigeni e stranieri caratteristici per la maggior parte di altri sistemi sociali.
Per comprendere, si dovrebbero evitare le connotazioni peggiorative di indifferenza o quelle dell’equivalente tedesco di disinteresse (“Gleichgültigkeit”). Prese alla lettera, le due parole non sono coercitive, in quanto esprimono solo certe differenze non significative nella situazione data. La parola tedesca disinteressto (“gleichgültig”) lascia intendere questo dato di fatto. Si tratta di cose di per sé diverse benché ricevano un valore identico, anche se in altre situazioni si poteva dar loro un significato differenziato. Un sovraccarico di informazioni rende in un certo senso difficile la scelta fra indifferenza e disinteresse, dato che
si rinuncia ad una informazione di principio disponibile.

Dal punto di vista socio-strutturale, si tratta di estendere la rete di relazioni nella quale ognuno è racchiuso. Una conseguenza di questo allargamento è che gli “Altri”, nostri intermediari nei campi relazionale e comunicativo, non sono visti in primis dal punto di vista della loro ineguaglianza da chiarire, ma sono piuttosto
trattati come individualità. Tenuto conto della loro individualità, essi sono uguali.
Di fronte a questa uguaglianza fondamentale di tutti gli altri connotati come ndividui, le differenze e ineguaglianze devono essere prima di tutto elaborate.
Generalmente, non ci si interesserà di queste differenze poiché esse non sono appresentative nella situazione data e potrebbero sommergere con un ovraccarico di informazioni. Il fenomeno dell’indifferenza nasce di fronte a quasi utte le differenze sociali. Niklas Luhmann menziona l’individualità disciplinata
come priorità dei tempi moderni, passaggio che assomiglia a quello di Norbert Elias.12 Paradossalmente riassunta, questa formulazione corrisponde tanto a un concetto personale, quanto alle attese verso gli altri. L’individualità attribuita ad ognuno non è più quella di un individuo straordinario o di un eroe. Questo si applica anche alla dimensione propria dell’individuo, facendo attenzione a non
gravare l’interazione e gli altri con l’immagine di una individualità straordinaria.
Basilare è quindi individualizzare ogni partecipante all’interazione e alla società. Da questo punto di vista le differenze diventano secondarie e vengono attivate solo quando vengono utilizzate a scopo rappresentativo o per l’osservazione dell’Altro. In ogni altro caso vengono trattate con indifferenza.

Diagnosi simili erano già state elaborate dalla sociologia classica all’inizio del XX secolo. Simmel parla di riservatezza del cittadino, che riporta simultaneamente alle esigenze di economia psichica (altrimenti “ci si atomizzerebbe dall’interno e si
arriverebbe ad uno stato d’animo inverosimile”). La diagnosi di Simmel si differenzia dall’analisi qui presentata per il fatto che egli crede di scoprire in questa riserva “il tono superiore di una avversione nascosta”.13 Tale avversione mi sembra troppo pesante e dunque inverosimile. Un altro autore completamente sconosciuto ma particolarmente interessante è Nathaniel Shaler, un geologo di
Harward, che nel 1904 ha pubblicato una “Natural History of Human Contacts".14
Shaler vede la tendenza dell’evoluzione delle civilizzazioni dove esisteva un tempo la differenza fra amici e nemici, indigeni e stranieri; perciò viene costituita una terza categoria sociale con forma dominante di classificazione degli altri.
Chiama questa terza categoria commonplace-folk e descrive la nostra
disposizione di fronte ad essa in modo che possiamo mantenere il nostro statuto senza registrare coscientemente la loro presenza o (in condizioni sociali di pace relativa) costruire una minima disposizione di simpatia.

In tutte queste analisi, la città fa da sfondo esplicito o implicito per il cambiamento della struttura. Era il laboratorio dei comportamenti moderni ed è divenuta oggi il modus vivendi universale dell’uomo sulla terra. La differenza fra città e campagna, una delle risorse più antiche del vocabolario sociologico, oggi è considerata solo raramente come una diversità istruttiva. Da questo punto di
vista, la chiara diversità propria della socialità cittadina lascia il posto all’universalità di esperienze di differenziazione.15

IV Meccanismi dell’indifferenza

La sociologia moderna dev’essere letta come un insieme di meccanismi
dell’indifferenza. Questa tesi è sostenuta dal fatto che l’indifferenza deve essere insegnata e imparata allo stesso modo delle altre tecniche civilizzatrici – anche se in modo inconscio. Prendiamo, dalla varia gamma, qualche esempio di indifferenza.

Una delle invenzioni più conosciute è la disattenzione civile di Erving Goffman. Riconosciamo il paradosso nella formulazione. Si tratta di comportamento civilizzato e di civiltà borghese del comportamento che, in questo contesto, prende la sconcertante forma di disattenzione verso l’altro. Come nota Goffman a più riprese, ciò è possibile soltanto perché si suppone da parte dell’altro la
medesima intenzione di gentilezza.16 Un termine analogo per definire questa attribuzione all’altro è fiducia. Sappiamo fin da Niklas Luhmann e altri che i meccanismi della fiducia costituiscono una rischiosa proiezione del comportamento futuro di un alter ego, un rischio di cui utilizziamo gli effetti per creare le nostre azioni complesse.17 Una fiducia di questo genere si basa sugli stretti limiti di una decisione cosciente. Antony Giddens parla di fiducia come di background noise.18

Un’altra proposta che ci ricorda le scienze naturali del XVII secolo, è il titolo di Allan Silver routine benevolence19. La benevolenza non necessariamente si offre attivamente all’altro, è piuttosto una delle abitudini operazionali dei sistemi sociali
e personali e le abitudini sono, come sappiamo dalle teorie dell’evoluzione socioculturale, dei risultati costanti dell’evoluzione di un sistema già definito, che limita
e permette simultaneamente le possibilità di cambiamento.20

La stessa prestazione può essere attribuita a tutti questi tipi paradossali d’orientamento. Esse permettono, a colui che utilizza modelli di orientamento, di scoprire migliaia di negazioni (di non attenzione verso gli altri) senza che per questo esse siano forzatamente registrate, cioè senza che le implicazioni di
conflitto e negazione dell’altro diventino visibili. In questo senso tutti i modelli di orientamento portano all’invisibilizzazione (inibizione) del non, che rappresenta una delle maggiori invenzioni per arginare i conflitti dei tempi moderni.21

Ma come si realizzano queste negazioni e quali aspetti legati alle prestazioni o alle capacità di azione devono essere accentuati? Si tratta in primo luogo dell’importante prestazione di filtraggio di migliaia di altri che, in fondo, sono presenti. Queste idee sono illustrate dagli esempi delle città, delle piazze e delle
manifestazioni di massa che suppongono la capacità di non sentirsi coinvolti da tutti questi altri. I disturbi psichici che non permettono questo distacco e che sono all’origine di uno smarrimento di sé, rivelano la non ovvietà di questo atteggiamento così come indicano che questa prestazione si suppone sia normale ai nostri giorni. Se non si riesce, si è considerati malati e un trattamento
psichiatrico o l’esclusione sono modelli di reazione dei quali bisogna tener conto.
In molte situazioni, la pretesa dell’assenza è una tecnica importante. Essa aveva già un ruolo importante nella società cittadina della vecchia Europa, quando l’interazione nelle famiglie si svolgeva come se il personale fisicamente presente e attivo non fosse veramente presente. Oggi, questa è una soluzione nelle
situazioni di conflitto in cui la pretesa assenza dell’altro, ma anche di se stessi, neutralizza la tendenza al conflitto.

Pretese di questo tipo sono sostenute dall’arte di evitare.22 Si accelera o rallenta il passo, si cambia marciapiede e si evita ogni contatto visivo. Nei contatti telefonici l’anonimato, l’utilizzo di uno pseudonimo e la non enunciazione del proprio nome hanno un ruolo simile. Molte comunicazioni telefoniche funzionano innanzitutto
come un confronto fra chi per primo dirà il suo nome.

Si aggiunge una singolare invenzione dei tempi moderni: una non comunicazione malgrado una evidente percezione reciproca. Non si può quindi (ancora) dubitare dell’esattezza del detto di Watzlawick secondo cui non sia possibile non comunicare. E’ un’improbabile conquista dei tempi moderni pensare che, ad esempio, si possa osservarsi per ore nella metropolitana senza parlarsi e che questa situazione non sia considerata come una sorta di comunicazione.23

Sul lato positivo della medesima minimalizzazione si trovano le istituzioni della minima accettazione dell’altro. Incrociandosi e salutandosi, anche fra persone assolutamente estranee, si associa un sorriso che l’altro non deve innanzitutto meritare. Questo sorriso sembra essere un’istituzione specifica di ogni cultura e non universale. In questo senso si scopre che nella Grecia moderna, al posto di un sorriso, si utilizza ancora uno sguardo freddo che fa capire all’altro che è uno straniero e che deve prima di tutto acquistare credito.24

Tutte queste prestazioni sono coerenti con la differenziazione delle relazioni impersonali come parte della quotidianità di ognuno. La persona è riportata dietro le linee dell’interazione e può rimanere sconosciuta. Cresce così l’abitudine di frequentare persone che in fondo non si conoscono. Amicizia e inimicizia, fiducia ed estraneità non sono più dualità per capire la situazione. La nuova istituzione
sociale della familiarità lascia il posto alla differenza fra relazioni personali e impersonali. L’accesso e il contatto di un soggetto conosciuto sono possibili senza problemi, ciò che allarga molto il campo d’azione delle relazioni al di là della confidenzialità e dell’estraneità. Per concludere, corrisponde a queste modifiche l’emergere di una forma di struttura sociale denominata rete e che innesta il contatto e persino la comunanza a partire da tutte le condizioni locali.25

V Osservazione finale: indifferenza e morale

Qual è il fondamento morale dell’indifferenza? L’indifferenza può essere vista come base morale della società? Esiste visibilmente una morale minima secondo un’accettazione di base di tutti gli altri che non devono prima di tutto elaborarla e meritarla. Detto questo, è importante che gli altri non meritino più di questa simpatia minima. Non hanno nessuna rivendicazione da avanzare sulla nostra attenzione e il nostro impegno. Qui siamo tutti osservatori distanti, da cui si può al massimo pretendere l’orientamento paradossale del detached concern, un modo ripreso nelle teorie di Renée Fox e più tardi di Talcott Parson come una forma di padronanza sulle attese delle professioni di aiuto.26 Nel contempo esistono, oltre al livello di interazioni, i segni di una solidarietà minima fra gli uomini – come
solidarietà mondiale di tutti quelli che vengono annoverati nella specie umana.
Gli effetti strutturali dell’indifferenza possono essere tassati se si osservano sistematicamente questi fenomeni sul piano della formazione delle società e se si paragonano gli uni agli altri. Alla fine, questa società diventa mondiale, vale a dire che non conosce più estraneità sociale, che non esiste più nessuno che possa
essere chiamato legittimamente straniero della società.27
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1 Edizione rivista di un testo apparso per la prima volta in: Zwischen Nanowelt und globaler Kultur. Science + Fiction, Berlino 2001, 98-110.

2 Vedi a proposito dell’estraneità sociale e culturale: Münkler, Herfried (Hg.): Furcht und Faszination. Facetten der Fremdheit, Berlino 1997.

3 Vedi Harman, Lesley D.: The Modern Stranger. On Language and Membership. Berlino 1988.

4 Greifer, Julian: Attitudes to the Stranger. A Study of the Attitudes of Primitive Society and Early Hebrew Culture. ds.: American Sociological Review 10 (1945), 739–745.

5 Vedi sulla ricostruzione di questo episodio CONNOLLY, Bob / ANDERSON, Robin: First Contact. New Guinea's Highlanders Encounter the Outside World. Londra 1988.

6 Una delle numerose formulazioni di questo dato di fatto è proposta da Clifford Geertz considerando la diversità delle tradizioni intellettuali, che rappresentano per coloro che vi sono impegnati parimenti una particolarità tribale e un effetto di “partecipazione al mondo”: “We are all natives now, and everybody else not immediately one of us is an exotic.“ GEERTZ, Clifford: The Way We Think Now: Toward an Ethnography of Modern Thought. In: idem, Local Knowledge. New York 1983, 147–163.

7 STICHWEH, Rudolf: Die Weltgesellschaft. Soziologische Analysen. Francoforte sul Meno 2000.

8 Questo passaggio si trova in un esposto sull’Irlanda: BURKE, Edmund: 1796/7: Letters on a Regicide Peace. Vol. 3. In: Select Works of Edmund Burke. Oxford 1878. (1991).

9 BÖDEKER, Hans Erich: Menschheit, Humanität, Humanismus. in: Geschichtliche Grundbegriffe (Bd. 3). Stoccarda (1982), 1063–1128. FUCHS, Peter / GÖBEL, Andreas (Hg.): Der Mensch – das Medium der
Gesellschaft? Francoforte sul Meno 1994.

10 NELSON, Benjamin: The Idea of Usury. From Tribal Brotherhood to Universal Otherhood. Chicago 1969.

11 SMITH, Adam: Der Wohlstand der Nationen. Eine Untersuchung seiner Natur und seiner Ursachen. 1789 (5.a riedizione Monaco 1993); rsp. SMITH, Adam: The Theory of Moral Sentiments. 1759 (Indianapolis 1984).

12 LUHMANN, Niklas: Individuum, Individualität, Individualismus. In: idem: Gesellschaftsstruktur und Semantik. Studien zur senssoziologie der modernen Gesellschaft (tomo 3). Francoforte sul Meno 1989,
149–258, ibidem 185–6.

13 SIMMEL, Georg: Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung (edizione completa, tomo 11). Francoforte sul Meno 1992 (1.a edizione 1908), ibidem 122–3.

14 SHALER, Nathaniel S.: The Neighbor. The Natural History of Human Contacts. Boston / New York 1904.

15 In GOFFMAN, Erving: The Interaction Order. In: American Sociological Review 48 (1983), 1–17, si osserva che la perdita di significato della differenziazione fra città e campagna costituisce una condizione di astrazione tale che l’ordine di interazione diventa possibile.

16 GOFFMAN, Erving: Behavior in Public Places. Glencoe, Ill. 1963; GOFFMAN, Erving: Relations in Public. Microstudies of the Public Order. Harmondsworth 1972.

17 LUHMANN, Niklas: Vertrauen. Ein Mechanismus der Reduktion sozialer Komplexität. 2a edizione Stoccarda 1973.

18 GIDDENS, Anthony: The Consequences of Modernity. Cambridge 1990, ibidem 82.

19 SILVER, Allan: Friendship in Commercial Society. Eighteenth-Century Social Theory and Modern Sociology. In: American Journal of Sociology 95 (1990), 1474–1504; SILVER, Allan: "Two Different Sorts of Commerce". Friendship and Strangership in Civil Society. In: WEINTRAUB, Jeff / KUMAR, Krishan (Hg.): Public and Private in Thought and Practice. Perspectives on a Grand Dichotomy. Chicago 1997, 43–74.

20 Vedi NELSON, Richard R. / WINTER, Sidney G.: An Evolutionary Theory of Economic Change. Cambridge, Mass. 1982.

21 Vedi a proposito della non visibilità del non STICHWEH, Rudolf: Zum Verhältnis von Differenzierungstheorie und Ungleichheitsforschung. Am Beispiel der Systemtheorie der Exklusion. In: SCHWINN, Thomas (Hg.): Differenzierung und soziale Ungleichheit. Die zwei Soziologien und ihre Verknüpfung. Francoforte sul Meno
2004, 353–367, ebd. III.

22 Vedi ANDERSON, Elijah: Streetwise: Race, Class and Change in an Urban Community. Chicago 1990, ibidem 209, “art of avoidance“.

23 Vedi SIMMEL, Georg: Die Grossstädte und das Geistesleben. In: Ders.: Aufsätze und Abhandlungen. 1901–1908 (tomo 1). Francoforte sul Meno 1993, 116–131 (1.a edizione 1903), ibidem 727.

24 Storace, Patricia: Dinner with Persephone. Travels in Greece. New York 1997.

25 Vedi Wellman, Barry (ed.): Networks in the Global Village. Life in Contemporary Communities. Boulder,Col. 1999.

26 Fox, Renée C.: Experiment Perilous. Physicians and Patients Facing the Unknown. New York 1959.

27 Vedi FÖGEN, Marie Theres (Hg.): Fremde der Gesellschaft. Historische und sozialwissenschaftliche Untersuchungen zur Differenzierung von Normalität und Fremdheit. Francoforte sul Meno 1991.

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Presidenza e Membri della Commissione di dialogo ebraico-cattolico romana
(CDEC)

Presidenza:

Prof. Dr. Alfred Donath (Delegato SIG)
Mons. Dr. Kurt Koch (Delegato CVS)
Segretario generale SIG: Dennis L. Rhein
Segretario generale della CVS: Dr. Agnell Rickenmann
Co-presidente ebreo: Prof. Dr. Ernst Ludwig Ehrlich (Riehen)
Co-presidente cattolico: Prof. Dr. Verena Lenzen (Lucerna)

Membri

Rabbino Tovia Ben-Chorin (Zurigo)
Rabbino assistente Michel Bollag (Zurigo)
Prof. Dr. Azzolino Chiappini (Lugano)
Dr. des. Simon Erlanger (Basilea)
Prof. Dr. Jean Halpérin (Ginevra)
Rabbino Hervé Krief (Losanna)
Prof. Dr. Simon Lauer (Clarens)
Dr. P. Christian M. Rutishauser SJ (Schönbrunn)
Prof. Dr. Adrian Schenker OP (Friborgo)
Prof. Dr. Esther Starobinski (Ginevra)
Sac. Roland Strässle (San Gallo)
Prof. Dr. Benedict Thomas Viviano OP (Friburgo)

Direzione

Istituto per la ricerca ebraico-cristiana (IREC), Università di Lucerna
Signora Prof. Dr. Verena Lenzen
Kasernenplatz 3
6003 Lucerna

Segretariato dell’IREC
tel. 041 228 55 35
fax 041 228 72 27
e-mail: ijcf@unilu.ch
Homepage dell’IREC: http://www.unilu.ch/tf/5490_15010.htm

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Inserito 01/01/1970