Come presentare gli Ebrei e l'ebraismo nell'insegnamento Cristiano

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United States Catholic Conference

Stati Uniti d'America       1988

A cura dell'Amicizia Ebraico Cristiana di Roma



Presentazione


Il Concilio Vaticano II ha pubblicato una Dichiarazione, la"Nostra Aetate", in cui si parla esplicitamente e a lungo del popolo Ebraico. E non solo con intento di superare i pregiudizi, gli errori e gli orrori commessi, ma soprattutto per far scoprire gli aspetti positivi dei rapporti profondi tra ebraismo e cristianesimo.
Il cammino di questi rapporti è andato sempre più crescendo e chiarendosi, nonostante diverse difficoltà, col contributo determinante detta Commissione pontificia incaricata delle relazioni con l'ebraismo. Sono stati decisivi due documenti di questa Commissione: il primo del 1975:"Orientamenti e suggerimenti per l'applicazione della dichiarazione Nostra Aetate"; il secondo del 1985 su "Ebrei ed Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica".
In vari paesi in cui Giovanni Paolo II si è recato non ha mancato di incontrare e di parlare a rappresentanze di comunità ebraiche, senza omettere naturalmente la storica visita alla Sinagoga di Roma e l'accoglienza di delegazioni ebraiche in Vaticano. Anche recentemente il Papa in una Lettera al Direttore della Specola Vaticana (Osserv. Rom. 26 ott. '88) scriveva che la Chiesa"si è sforzata di liberarsi da ogni avanzo di antisemitismo e di mettere l'accento sulle sue origini nel giudaismo e sul suo debito religioso verso lo stesso".
Molte Chiese locati hanno prodotto Sussidi pastorali sui modi e sui contenuti per una conoscenza delle radici ebraiche dei cristianesimo, per uno stile nuovo nelle relazioni cristiano-ebraiche, utili per superare atteggiamenti e mentalità distorte in seno alle comunità di fedeli.
Con queste finalità anche il Segretariato per te relazioni con l'Ebraismo della Conferenza Episcopale Cattolica degli Stati Uniti ha preparato un Sussidio pastorale di Orientamenti, utili"ai catechisti, ai predicatori, agli editori di libri di pedagogia"e, aggiungerei, agli insegnanti di Religione nelle scuole.
La traduzione italiana di questo opuscolo arricchisce non solo la letteratura in proposito, ma contribuisce a formare una cultura di dialogo, di comprensione, di approfondimento; eliminando luoghi comuni offensivi per un popolo che ha immensamente sofferto, e arricchendo il patrimonio cristiano non solo richiamandosi alle sue radici, bensì assimilando contenuti di spiritualità che nel succedersi dei secoli molti del popolo ebraico hanno sviluppato.
Ben venga allora questa pubblicazione!

Clemente Riva, Vescovo
Presidente della Commissione Ecumenica di Roma

Prospettive storiche



Ebraicità di Gesù
Gesù è nato, è vissuto ed è morto Ebreo. Fu un Ebreo del suo tempo. Egli stesso, la sua famiglia e i suoi primi discepoli osservavano le leggi, le tradizioni e le usanze del popolo cui appartenevano.
I più grandi concetti dell'insegnamento di Gesù non possono dunque essere compresi se li si stacca dal patrimonio ebraico.
Anche dopo la Resurrezione coloro i quali seguirono Gesù capivano e articolavano l'evento attraverso categorie essenzialmente ebraiche, tratte dalla tradizione e dalla liturgia ebraica. Una valutazione del Giudaismo del Secondo Tempio è essenziale se si vuole comprendere adeguatamene la missione e l'insegnamento di Gesù e, di conseguenza, della stessa Chiesa.

La società ebraica al tempo di Gesù
Il Giudaismo all'interno del quale Gesù è nato e nel quale si è sviluppata la Chiesa primitiva era caratterizzato da una molteplicità d'interpretazioni delle Scritture e della tradizione. In questo Giudaismo soggetto all'influenza culturale e alle pressioni politiche del mondo pagano - che si tratti del fascino dell'ellenismo o del peso dell'occupazione romana -, avevano fatto la loro comparsa numerosi movimenti e sette.
Tra questi gruppi, notiamo i Sadducei, strettamente legati alla casta sacerdotale del Tempio, che osservavano una interpretazione letterale della Bibbia e tendevano a collaborare con il governo romano; diversi gruppi di Farisei, che svilupparono un modo flessibile, estremamente nuovo, d'interpretare la Scrittura, in contrasto, sul piano dottrinale, con i Sadducei e gli Esseni. Questi ultimi avevano scelto una vita di mortificazione e di purezza all'interno di una comunità, considerando che i sacerdoti del Tempio violavano le leggi relative ai sacrifici stabilite dalla Torah (si ritiene che i manoscritti del Mar Morto furono redatti tra gli Esseni).
Esistevano peraltro diversi gruppi apocalittici tra i quali regnava la convinzione che la fine dei tempi, la redenzione d'Israele e la sua liberazione dal giogo straniero fossero vicine; dei movimenti rivoluzionari come quello degli Zeloti, che esaltavano la ribellione violenta contro Roma, e diversi gruppi politici, come gli Erodiani, favorevoli alla congiuntura politica del momento e collaboratori dei Romani. Data la durezza dell'occupazione romana, questi movimenti sopravvivevano sotto forma di correnti e di tensione piuttosto che come gruppi nettamente differenziati.

Farisei e Sadducei
I Farisei e i Sadducei sono, senza dubbio, i due gruppi che più frequentemente appaiono nei Vangeli, in quanto avversari di Gesù in determinate discussioni. A questo proposito è importante sottolineare che le opinioni differivano all'interno di questi gruppi. È il caso in particolare dei Farisei, spesso divisi su questioni fondamentali.
Ai tempi di Gesù i Farisei si presentavano come un gruppo laico vicino agli strati popolari che si preoccupava soprattutto di portare il popolo intero ad un livello di santità e di osservanza della Torah pari a quello che ci si aspettava dai sacerdoti del Tempio. I Sadducei di discendenza aristocratica e sacerdotale, rigettavano l'interpretazione innovatrice delle Scritture proposta dai Farisei. Secondo loro l'osservanza religiosa consisteva in una adesione rigorosa alla lettera della Torah.
Il ritratto dei Farisei e dei Sadducei fornitaci dal Vangelo è segnato dalle preoccupazioni teologiche degli evangelisti all'epoca della redazione definitiva dei testi, qualche generazione dopo la morte di Gesù. Nel Nuovo Testamento, numerosi riferimenti sfavorevoli e persino ostili agli Ebrei e al Giudaismo hanno per contesto storico i conflitti tra i Cristiani del posto e le comunità ebraiche, durante gli ultimi decenni dei primo secolo ("Sussidi"IV). L'esposizione dei conflitto tra Gesù e alcuni gruppi come i Farisei riflette sovente il deterioramento dei rapporti tra Cristiani ed Ebrei durante questo periodo, molto tempo dopo la morte di Gesù. Talvolta è difficile stabilire quali fossero i reali rapporti di Gesù con tali gruppi.
Tuttavia, sappiamo adesso alcune cose che modificano radicalmente la percezione tradizionale che abbiamo delle relazioni tra Gesù e i Farisei. In primo luogo, l'insegnamento di Gesù è più vicino a quello dei Farisei che a quello di qualunque altro gruppo di questo periodo e relativamente lontano dal letteralismo biblico caratteristico dei Sadducei. D'altra parte, è noto che i Farisei non avevano sempre le stesse posizioni: coesistevano scuole diverse, ad esempio quelle di Hillel e di Shammai. Documenti rabbinici ci insegnano che quest'ultimo adottava sovente una posizione più rigorosa nell'interpretazione della Legge, mentre l'approccio di Hillel era più conciliante. In complesso, le prese di posizione di Gesù sembrano essere state più vicine allo spirito di quelle che la tradizione attribuisce alla "casa di Hillel". È molto probabile che alcuni contrasti tra Gesù e i Farisei, così come sono descritti nel Nuovo Testamento, riflettano le dispute intestine dei movimento farisaico, e che Gesù abbia preso posizione per un campo contro l'altro.

Radici ebraiche dell'insegnamento e del pensiero cristiano
Malgrado le difficoltà che la ricostruzione storica presenta, possiamo affermare con qualche grado di certezza che Gesù condivideva, con la maggioranza degli Ebrei del suo tempo, un profondo rispetto per la Torab. In numerosi punti, il suo insegnamento si allinea a quello dei Farisei; per esempio riguardo alla resurrezione dei morti, l'accento messo sull'amore di Dio e del prossimo, l'attesa del regno di Dio e dei giudizio finale, l'importanza dell'umiltà di fronte a Dio ma anche della fiducia, la certezza che si può rivolgersi a Lui nella preghiera come ad un Padre Amoroso ("Sussidi" III ).
In modo analogo la Chiesa primitiva organizzerà la sua vita e la sua preghiera comunitaria partendo da modelli liturgici ebraici come quelli della Sinagoga ("Sussidi" V ). Ne consegue che la stessa liturgia cristiana non può essere compresa altrimenti che in rapporto alle pratiche e alla tradizione ebraica dell’epoca biblica e post biblica (Vedere più avanti: Preparazione a sacramenti, e Catechesi e liturgia).


Principi di catechesi


Vangeli e Scritture ebraiche
È essenziale ricordare che i Vangeli rappresentano delle riflessioni teologiche sulla vita e l'insegnamento di Gesù, e che, pur avendo una base storica non erano considerati come delle testimonianze oculari. In realtà i Vangeli sono stati fissati nella loro forma definitiva tra i quaranta ed i sessanta anni dopo la morte di Gesù.
Essi riflettono perciò un processo di elaborazione complesso e scaglionato nel tempo (“Sussidi” IV). Nella loro forma definitiva assumono forme letterarie diverse, stili e procedimenti retorici comuni alla cultura ebraica dell'epoca.
Prendendo a prestito metodi utilizzati nell'apocalittica ebraica del tempo, negli scritti essenici (manoscritti del Mar Morto) nella antica letteratura rabbinica, gli autori del Nuovo Testamento si sforzavano di spiegare la loro percezione di Gesù in relazione alla tradizione ebraica, citando le scritture ebraiche.
Gli evangelisti interpretavano la speranza ebraica di salvezza che leggevano nei profeti (ad esempio Isaia 7: 14,52-53; Osea 11:1; Michea 5: 1) come l'annuncio della venuta di Gesù. Queste interpretazioni, scaturite alla luce della Resurrezione, non sostituiscono le intenzioni originarie dei profeti. Allo stesso modo, l'affermazione cristiana circa la validità della percezione degli evangelisti non esclude la validità dal punto di vista ebraico, post-testamentario e contemporaneo, sul significato dei testi profetici (“Sussidi” I, II). Ciò nonostante si vede facilmente come l'uso degli stessi simboli con differenti significati è fonte di possibili malintesi e perfino di risentimenti tra Ebrei e Cristiani di oggi.
Il Concilio Vaticano II ha chiaramente affermato che l'Alleanza di Dio con il popolo ebraico, in quanto Suo popolo particolare, non è stata cancellata dalla venuta di Cristo e che la Sua presenza permane tra questo popolo: “Gli Ebrei a causa dei loro Padri, rimangono carissimi a Dio, la cui chiamata e i cui doni sono senza pentimento” (Nostra Aetate, n. 4). Così le intuizioni rabbiniche posteriori al Nuovo Testamento sul significato delle Scritture comuni ad Ebrei e Cristiani conservano la loro propria validità. Messi sull'avviso e rispettosi di ciò che distingue la lettura ebraica della Bibbia dalla lettura cristiana, í catechisti cristiani possono e debbono profittare delle inestimabili ricchezze d'interpretazione biblica e di pensiero religioso che la tradizione ebraica contiene.

Tradizioni religiose ebraiche
Poiché non soltanto il messaggio di Gesù ma anche lo sviluppo della Chiesa primitiva appaiono nel contesto della tradizione ebraica, la conoscenza di questo patrimonio tuttora vivo è indispensabile per un insegnamento cristiano corretto. Ora, questo patrimonio — è importante sottolinearlo — comprende non soltanto il Giudaismo biblico, ma anche il Giudaismo rabbinico e quello della nostra epoca. Come ogni generazione di Cristiani ha riaffermato e fatto propria la testimonianza apostolica preservata nel Nuovo Testamento, così ogni generazione di Ebrei ha continuato a mantenere l'antico dialogo di Israele con Dio.
Perciò, quando i catechisti presentano la testimonianza della Chiesa primitiva come una realtà significativa per la nostra vita contemporanea, faranno bene a presentare anche la testimonianza viva del popolo ebraico al permanere della fedeltà di Dio all'Alleanza che ha stabilito con lui (“Sussidi” VI).
Introduciamo qui qualche esempio di ricchezze spirituali della tradizione ebraica, così come sono state tramandate ai nostri giorni.
Esse potranno essere utilizzate nella catechesi e noi speriamo che la loro presentazione stimolerà uno studio più approfondito del Giudaismo tra gli educatori cattolici incaricati dell'insegnamento religioso.

Natura di Dio
Dio, nel Giudaismo, è considerato come Padrone della Storia. La sua giustizia si estende su tutti gli esseri umani. Egli è Dio d'amore e di misericordia, assolvendo un ruolo contemporaneamente paterno e materno. Secondo il commentario rabbinico il Nome che appare in Esodo 34,6-7 svela i “tredici attribuiti di misericordia”. Dio è nello stesso tempo trascendente e immanente, Re e Padre, adorato con un fervore pieno di rispetto e tuttavia così vicino al Suo popolo da venire a “piantare ivi la Sua tenda”.

Etica ebraica
L'etica ebraica è sotto il segno dell'imitazione di Dio, a partire dalla sua concezione della creazione (Gn.1: 27) fino a quella della Alleanza (“Siate santi, come io, il Signore, sono Santo” Lev.19: 2). La legge ebraica dell'amore, che Gesù confermerà, trova la sua origine e il suo contesto spiegati nel Pentateuco (Deut. 6:5; Lcv.19,18,33-34).
Così pure per la bontà attiva (Lev.19; Deut.9,10-19), il perdono a coloro che ci offendono e persino l'obbligo di sfamare il nemico (Ex.23,4; Prov.25,21-22). Alcuni commentari rabbinici, a proposito di questi versetti e di altri passaggi biblici similari (per esempio, sulla necessità del pentimento) possono allargare le prospettive e stimolare la discussione nelle classi. Partendo dall'imitazione di Dio, il commentario rabbinico ha sviluppato, ad esempio, l'idea delle «opere di misericordia». «Egli ha vestito gli ignudi. Anche tu devi vestire coloro i quali sono ignudi. Il Santo, benedetto Egli sia, ha visitato gli infermi. Anche tu devi visitare gli infermi» (Talmud di Babilonia, Trattato Sotah, 14 a). Gli scritti rabbinici circa il dovere d'imitare Dio nell'atto del perdono sono numerosi: “Rabbi Gamaliel ha detto: «Sia per te un segno che ogni qualvolta tu sei compassionevole, il Compassionevole ha pietà di te” (“Tosefta”, Trattato Baba Kama, IX, 29, 30), “Sii compassionevole sulla terra, come lo è il nostro padre Celeste!” (Targum di Gerusalemme su Lev. 22, 28).
Giovanni Paolo II, nel corso della sua storica visita alla Sinagoga di Roma ha affermato che insieme Ebrei e Cristiani sono i depositari e i testimoni di un'etica segnata dai dieci comandamenti nella cui osservanza l'uomo trova la verità e la libertà. Promuovere una riflessione comune e una collaborazione su questo punto è uno dei grandi doveri del momento.

Significato ebraico di missione
La missione è presentata dai profeti Isaia, Geremia, Ezechiele, e dopo di loro dalla preghiera, dal Medio Evo all'epoca moderna, come la “Santificazione del Nome” divino da un'estremità all’altra dell'universo. Agire in modo che il Nome di Dio sia riconosciuto ed esaltato da tutte le nazioni del mondo è l'esigenza di questa missione. La convinzione che Dio deve essere onorato dall'umanità intera è sviluppata sul pensiero rabbinico che l'Alleanza di Dio con Noè (distinta da quella di Abramo) è un'Alleanza universale, una via di salvezza per tutti i popoli. Questo concetto di universalità sottintende la visione ebraica del Regno di Dio concepito come il momento in cui tutte le nazioni verranno a prosternarsi sulla Montagna Santa e si raduneranno, dai confini dell'universo, alla tavola del banchetto divino (vedere Isaia, Michea etc.).
Il significato ebraico di missione è stato attestato dagli innumerevoli martiri, non soltanto nei tempi biblici, come illustra il Libro dei Maccabei, ma durante l'epoca cristiana, ai tempi delle crociate, quando migliaia di ebrei morirono piuttosto che rinnegare la loro fede. È imperativo riconoscere oggi la “testimonianza eroica” del popolo ebraico attraverso la storia (“Sussidi” VI) e rendergli omaggio. È un articolo della fede ebraica che quando il nome divino sarà esaltato in tutto l'universo il Regno di Dio sarà realizzato.

Concetto ebraico del Regno di Dio
Il Giudaismo concepisce il regno di Dio come un regno di universale armonia e pienezza (Shalom) dove tutti i popoli della terra saranno uniti nell'adorazione del Signore. Questa concezione della fine dei tempi, verso la quale è orientata la storia, provoca e stimola Ebrei e Cristiani in permanenza. (Isaia 2,11;25;35; Michea 4,4).

Preghiera e liturgia ebraica
La preghiera ebraica, così come l'etica ebraica, si articola sul concetto di una corrispondenza tra il cielo e la terra. Essa si divide in due parti: benedizioni ascendenti e discendenti. Colui che prega benedice Dio in uno dei suoi attributi e implora la benedizione che corrisponde a questo tratto specifico. La sublime preghiera di Gesù (il Padre Nostro) è tipica della preghiera ebraica, non soltanto nelle parole che la compongono (ogni frase del Padre Nostro ha l'equivalente nel libro ebraico di preghiere, il «Siddur») ma anche nella struttura. La prima parte della preghiera consiste in benedizioni ascendenti nelle quali Dio è esaltato in quanto Padre. Chi prega esprime la nostalgia missionaria per il tempo nel quale il Suo Nome sarà glorificato ed il Suo regno instaurato. Nella seconda parte, egli implora quel flusso discendente di benedizioni che è naturale a un Dio Padre dispensare: pane, perdono, liberazione. Tra queste due parti, un versetto “cerniera” esprime il desiderio che il cielo e la terra si corrispondano.
Il desiderio di questa armonizzazione tra il cielo e la terra attraversa tutta la liturgia dello Shabbat, che invariabilmente inizia con gli stessi termini di lode a Dio e di nostalgia del Suo Regno. Secondo l'interpretazione rabbinica, il Sabato è una anticipazione del Regno in quanto libera ogni creatura (ivi compresi gli animali) dal lavoro dei giorni ordinari e arriva fino all'esclusione di ogni allusione alla malattia, alla guerra, alla morte. L'armonia universale al momento della creazione è ricordata ed esaltata in quanto intenzione di Dio. Il settimo giorno, giorno di pace, lo Shabbat, è così situato all'inizio e alla fine dei tempi. Il tema di questa pace universale (Shabbat Shalom) domina la liturgia. Questo sentimento di pienezza e di unità deve imprimere la sua impronta nell'ascolto della parola di Dio in Sinagoga e nel pasto festivo di ogni focolare. Le preghiere del pomeriggio di Shabbat considerano certo che questo stato di perfezione non si è ancora realizzato e i salmi di pellegrinaggio che segnano la chiusura della giornata indicano che l'umanità non è ancora arrivata a Gerusalemme, che essa è ancora in cammino verso la realizzazione di una società santa.
Le grandi feste ebraiche, illuminano in diversi modi la continuità del cammino verso la pienezza dei tempi. Così la Pasqua (Pesah) che celebra la liberazione dalle catene della schiavitù, il cammino verso la terra promessa; la Pentecoste (Shavuoth), che celebra il dono della Torah, la parola di Dio considerata come sorgente di vita, fonte tra la Sua trascendenza e la Sua presenza immanente; Succoth o festa dei Tabernacoli, festa di riconoscenza, festa di adunanza. Le feste solenni del nuovo anno e del Perdono (Rosh Hashana e Yom Kippur) testimoniano che la condizione umana non è altro che questo cammino ed esprimono questa visione in termini di esperienza di peccato, di pentimento, di giustizia di Dio, del Suo amore e del Suo perdono.

Torah e Vangelo
Il termine ebraico “Torah” è abitualmente tradotto da “Legge”, ma un significato più esatto della parola sarebbe “insegnamento” o “istruzione”. Nel Giudaismo, Torah è il termine impiegato per indicare il Pentateuco e, per estensione, la “Via” sulla quale è impegnato il Giudaismo, il suo modo di vivere l'Alleanza con Dio (Halakha). La Torah è dunque intesa come volontà rivelata di Dio, la risposta che Dio, di rimando, attende dal popolo che ha liberato e col quale ha stabilito un'Alleanza eterna che non può essere infranta.

Gesù e la Torah
Gesù ha vissuto secondo la Torah e ha preso parte a discussioni sul suo significato. L'autorità della persona di Gesù e il carattere unico del suo insegnamento sono evidenziati nei testi evangelici. Alcuni brani evangelici riportano discussioni tra Gesù e gli altri ebrei che sembrano gravitare attorno all'autorità che Gesù rivendicava in quanto interprete della Torah. Gesù accettava e osservava la Legge (cf. Ga1.4,4; Luca 2,21-24), predicava il rispetto della Legge e la sua messa in pratica (Mat.5,17-20). Non è dunque mai giustificabile presentare l'insegnamento di Gesù come se fosse in opposizione fondamentale alla Torah. La realtà dinamica che costituisce la Legge ebraica non deve mai essere descritta come “fossilizzata» o ridotta a un “legalismo”. Sarebbe fare una lettura sbagliata, una radicalizzazione di certuni passaggi polemici del Nuovo Testamento, staccandoli dal loro contesto e dalla loro primitiva intuizione (vedere più indietro: Farisei e Sadducei e Vangeli e Scritture ebraiche).

San Paolo e la Legge
San Paolo ha affermato che la Legge non aveva valore di obbligo per i Gentili che erano stati ammessi all'Alleanza attraverso l'azione di Dio in Gesù, ma d'altronde non ha mai suggerito che la Legge (Torah) avesse cessato di rappresentare la volontà di Dio per il popolo ebraico. Nell'Epistola ai Romani (9-11) egli svela il suo amore profondo per il suo popolo (9:3) e insiste sul fatto che Dio non ha in alcun modo respinto gli Ebrei (11:1-12). Paolo afferma che questa relazione persiste e resta valida dopo la fondazione della Chiesa perché “i doni di Dio sono senza pentimento” (11:9). Anche se Dio ha manifestato la sua misericordia nel permettere ai Gentili di divenire “figli di Dio” nel Cristo (9:6-18), gli Israeliti suoi “fratelli secondo la carne” possiedono “l'adozione, la gloria, le alleanze, il culto e le promesse” (9:4).

Scopo della catechesi
La catechesi deve mettere chiaramente in evidenza il fatto che Ebrei e Cristiani sono compartecipi nel progetto di Dio e che questa realtà deve riflettersi nei loro rapporti. Lo scopo della catechesi, secondo le Note del Vaticano, è quello di condurre lo studente ad “una maggiore coscienza che il popolo di Dio dell'Antica e della Nuova Alleanza tende verso fini analoghi: la venuta o il ritorno del Messia — anche se si parte da due punti di vista differenti. Trasmessa abbastanza presto dalla catechesi, una simile concezione educherebbe in modo concreto i giovani Cristiani a dei rapporti di cooperazione con gli Ebrei che vadano al di là del semplice dialogo”. (Note, II: 10-1 1 ).

Presentazione della passione di Gesù
Bisogna che la catechesi fornisca gli elementi capaci di portare lo studente ad una percezione corretta della morte di Gesù. Allo stesso modo della totalità del Nuovo Testamento, i racconti della Passione nei quattro vangeli non sono dei rendiconti di avvenimenti storici da parte di testimoni oculari, ma delle riflessioni a posteriori, con motivazioni diverse, sul significato della morte di Gesù e della sua Resurrezione. Questi racconti recano uno stesso messaggio centrale e cioè che Gesù è morto “a causa dei peccati di tutti gli uomini (...) e affinché tutti ottengano la salvezza” (Nostra Aetate, n. 4). Qualsiasi spiegazione che addossi agli Ebrei una responsabilità diretta o indiretta per la morte di Gesù non soltanto nasconde questa verità centrale, ma produce antisemitismo.

Ricostruzione degli avvenimenti della Passione di Gesù
Allo stato attuale della ricerca, l'erudizione biblica non può ricostruire con assoluta certezza la concatenazione delle circostanze relative alla morte di Gesù. Vi è tuttavia nei quattro Vangeli un parallelismo a proposito di certi fatti essenziali, che colpisce: l'ultima cena con i discepoli, il tradimento di Giuda, l'arresto di Gesù fuori della città (le autorità temevano la popolarità di Gesù fra gli Ebrei), il suo interrogatorio da parte del Gran Sacerdote, la sua comparizione dinanzi a Pilato e la sua condanna, il suo supplizio da parte dei soldati romani, la sua crocifissione come “Re dei Giudei”, infine la sua morte, la sua sepoltura, la sua Resurrezione. Questi avvenimenti suscitano presso gli evangelisti una unanimità che non ha equivalente in tutto il racconto della vita di Gesù.
Certe differenze di dettaglio riflettono i punti di vista personali dell'autore o del redattore al momento in cui la narrazione ha ricevuto la sua forma definitiva. Una comparazione fra i racconti della Passione può aiutare il catechista a separare la parte della visione particolare di ogni evangelista da quel che si riferisce alla percezione fondamentale di tutto quel che sta alla base del Vangelo. Per esempio la frase “E tutto il popolo gridò: 'che il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli'“ appare solo in Matteo (27:25) mentre Marco e Luca distinguono la “folla” davanti a Pillato e la “grande moltitudine” che simpatizza per Gesù (Luca 23:27). Né Giovanni né Luca menzionano un processo ufficiale di Gesù dinanzi al Sinedrio, il che rende tale evento incerto sul piano storico. E così pure c'è stata una tendenza dai Vangeli più antichi (Marco in particolare) fino ai più recenti (Matteo e Giovanni) di far ricadere la responsabilità sempre più sui Giudei e sempre meno su Pillato, il quale era il solo ad avere il potere di ordinare una crocifissione (Gio. 18:31), aspetto sul quale Matteo insiste nella scena del lavaggio delle mani (Matt. 27:24). L'uso del termine generale “I Giudei” nel racconto giovanneo della Passione è tale da suscitare l'idea di una colpevolezza collettiva e deve essere accuratamente commentato.
Scene simili, trasmesse alla classe senza un supporto critico, possono provocare errori di interpretazione sul fondamento stesso dei racconti del Nuovo Testamento e persino suscitare sentimenti ostili verso gli Ebrei, come la storia ha dimostrato fin troppo ampiamente. È indispensabile nella catechesi odierna rimettere nel
quadro del contesto i passaggi che presentano il conflitto fra Gesù e diversi gruppi giudaici.

I Farisei e la crocifissione
t assolutamente necessario non dipingere i Farisei come gli avversari implacabili di Gesù. Su molti punti essenziali del suo insegnamento, la sua visuale non differiva dalla loro. Inoltre, i racconti della Passione non attribuiscono ai Farisei un ruolo significativo. In un passaggio di Luca si dice perfino che í Farisei tentarono di avvertire Gesù che gli Erodiani stavano tramando un complotto contro di lui (Luca 13: 31 ).

Il ruolo di Pillato
I catechisti dovranno mettere in evidenza quel che ci è noto, a partire da fonti non bibliche, sulla natura oppressiva della dominazione romana in Giudea e sul carattere poco raccomandabile di Pillato. Il Governatore romano nominava i grandi sacerdoti del Tempio e poteva revocarli a suo piacimento. Praticamente Pillato ha avuto nelle sue mani il controllo della situazione dall'arresto fino alla crocifissione di Gesù. In verità Pillato è stato un Procuratore particolarmente autoritario e crudele. Ha crocefisso centinaia di giudei fuori da ogni regola di giustizia, tanto ebraica che romana. Gesù fu uno di loro, come ci raccontano i Vangeli. Pillato finirà per essere richiamato a Roma per render conto dei suoi atti di crudeltà e l'agitazione da essi provocata fra la popolazione giudaica. Ricordiamo che il Credo menziona soltanto Pillato — e non i Giudei —in connessione con la morte di Gesù.
L'esperienza moderna di popoli oppressi da una occupazione totalitaria — la Francia sotto i nazisti, l'Afghanistan sotto i Russi —può essere presa come esempio concreto che faciliterà la comprensione delle tensioni fra collaborazionisti e patrioti.
Bisognerà mettere l'accento sul significato teologico degli avvenimenti e sulla nostra personale partecipazione in quanto peccatori (Catechismo del Concilio di Trento). I principi che seguono hanno una speciale importanza per la preparazione della Quaresima e della Settimana Santa (“Sussidi” IV).


Catechesi pratica


Una Catechesi orientata verso la maturità della fede
Il compito essenziale della catechesi consiste nello sviluppare la maturità della fede, fin dalla giovinezza e per tutta la vita, in modo appropriato per ciascun credente. Una fede matura richiede a costui la più profonda percezione possibile della propria identità spirituale, accompagnata dal massimo rispetto per l'identità spirituale altrui.
Per comprendere la propria identità i Cristiani hanno bisogno di conoscere e apprezzare il proprio radicamento nel giudaismo. Debbono conoscere ed accettare il fatto che Gesù era un Ebreo osservante e perciò debbono aver care le tradizioni giudaiche di cui, attraverso di lui, sono eredi. In pari modo debbono realizzare che il Giudaismo rabbinico si è sviluppato contemporaneamente al Cristianesimo e che nel mondo attuale le due religioni sono il risultato di uno sviluppo parallelo di usi e insegnamenti antichi.
I Cristiani la cui fede è matura non si sentiranno minacciati in un dialogo con l'Ebraismo moderno. Al contrario, si sentiranno stimolati e ispirati dalle sue ricchezze spirituali. Una fede cristiana evoluta non si considera come opposta al Giudaismo, ma come associata ad esso su tutti i piani nella realizzazione del progetto redentore di Dio per il mondo.
“Attenti allo stesso Dio che ha parlato, sospesi alla stessa parola, abbiamo una stessa memoria da testimoniare e una comune speranza in Colui che è padrone della storia” (“Sussidi” II, 11).

Preparazione ai Sacramenti
Mentre la definizione cattolica del sacramento come un “segno istituito da Cristo” sembra rendere marginale un eventuale riferimento al Giudaismo, la realtà è che, in questo come in altri casi, Gesù e la Chiesa primitiva hanno attinto alle ricchezze della tradizione ebraica.
Gli Ebrei non hanno mai usato la terminologia sacramentale sviluppata nella tradizione liturgica cristiana, ma la “visione sacramentale” della vita, l'idea che la creazione è santa, che Dio parla e ci è presente attraverso dei segni materiali, è intrinsecamente ebraica.

Segni della presenza di Dio
Il concetto ebraico della «Shekhina», parola femminile che si trova nella letteratura rabbinica ad indicare la Presenza divina, illustra bene questa visione «sacramentale». Numerosi episodi biblici descrivono la maniera in cui Dio si rende presente al popolo che ha scelto, attraverso segni concreti. Il roveto ardente, il mare che si apre per lasciar passare il popolo, la nube e la colonna di fuoco nell'Esodo, la nuvola che riempì il Tempio quando fu consacrato (I Re, 8), la discesa dello spirito su Davide quando fu unto, ne sono degli esempi. I riti del bagno di purificazione e dell'unzione sono associati ad episodi similari di liberazione o di attribuzione del potere.
Il rito cristiano del battesimo è derivato dal «Mikveh» ebraico. La pratica cristiana dell'unzione riflette la pratica biblica dell'unzione dei re. Il termine ebraico di «Messia» significa «unto».

Teoria sacramentale
Al di fuori della prospettiva generale sacramentale e delle origini ebraiche del rituale cristiano, la teoria sacramentale cristiana è radicata in concezioni ebraiche del periodo biblico e del periodo del Secondo Tempio: necessità costante per l'uomo di pentirsi delle proprie colpe e di fare penitenza, ruolo della mediazione rimale del prete, concezione elevata dell'amore nel matrimonio, il cui nodo è di una tale santità che può metaforicamente rappresentare la relazione fra Dio e il suo popolo.

Eucaristia
L'atto centrale del culto cristiano — l'Eucaristia — trova non solo la sua origine nelle preghiere e nei riti della cena pasquale (benedizione sul pane e il vino) ma anche il suo significato essenziale dal concetto ebraico di «zikkaron» (ricordo e attualizzazione) secondo il quale la presenza salvatrice di Dio è ricordata e attualizzata attraverso il rito di un pasto. I Vangeli sinottici implicano che Gesù ha istituito l'Eucaristia durante il Seder pasquale celebrato con i suoi discepoli.

Catechesi e Liturgia
Un compito fondamentale della catechesi è la preparazione alla liturgia. Occorre sottolineare qui che gli Ebrei come i Cristiani trovano nella Bibbia la sostanza stessa dell'adorazione comunitaria: proclamazione e ascolto della parola di Dio, preghiere di lode, preghiere d'intercessione per i vivi e i morti, implorazione della misericordia divina.

Il ciclo liturgico
Il ciclo liturgico delle feste della Chiesa è parallelo a quello della Sinagoga. La maggior parte delle feste cristiane vi è radicato e ne trae ispirazione. Cristiani ed Ebrei celebrano la Pasqua. Gli Ebrei celebrano il passaggio storico dalla schiavitù alla libertà in attesa del compimento della storia umana in un'era di giustizia e di pace (shalom) per tutta l'umanità alla fine dei tempi. I Cristiani celebrano l'esodo pasquale realizzato nella morte e la Resurrezione di Gesù, in una similare attesa della sua ultima consumazione alla fine dei tempi.
San Luca descrive gli Ebrei che salivano a Gerusalemme per la festa della Pentecoste, celebrazione del dono della Torah. I Cristiani celebrano la festa ebraica della Pentecoste come circostanza del dono dello Spirito agli apostoli. Ambedue le tradizioni osservano dei periodi di digiuno e di pentimento nel corso del ciclo annuale. Lo spirito liturgico dell'Avvento e della Quaresima ha un equivalente (benché profondamente differente su vari punti) nello spirito di «teshuvah» (ritorno, pentimento) e di riconciliazione che anima le grandi feste d'autunno, che culminano con lo Yom Kippur, il giorno del Gran Perdono. A proposito di questa festa, il libro di preghiere ebraico (Mahazor) enuncia la credenza ebraica nella libertà di scelta, nell'esistenza della “tendenza cattiva”, enumera diversi livelli di peccato, esprime la necessità della confessione, del rimorso, delle rinnovate risoluzioni.

Legami spirituali
Non solo il grande ciclo liturgico ma anche innumerevoli dettagli nella forma delle preghiere e del rituale stanno a testimoniare il legame spirituale che esiste tra la Chiesa e il popolo giudaico. La preghiera delle ore e altri testi liturgici attingono la loro ispirazione nel rituale della Sinagoga e nella Bibbia che ci è comune (in particolare i Salmi). Lo stesso dicasi della formulazione delle più venerabili preghiere della Chiesa come il Pater Noster e altre preghiere eucaristiche. L'offerta del pane e del vino, per esempio, è radicata nella “Berachà” ebraica (benedizione) “Benedetto sii tu o Signore nostro Dio, Re dell'universo, che fai uscire il pane dalla terra”.
Come ha affermato Giovanni Paolo II: “La fede e la vita religiosa del popolo ebraico, quali sono professate e praticate ancora ai giorni nostri, possono aiutarci grandemente a capire certi aspetti della vita liturgica della Chiesa”.

Formazione dei catechisti
Quel che vale per la catechesi in generale è ancora più indispensabile per quanto riguarda i programmi destinati alla preparazione dei catechisti. E indispensabile incoraggiare continuamente un apprezzamento corretto e positivo degli Ebrei, ancora oggi il popolo di Dio, e del Giudaismo, testimone vivente di Dio nel mondo. Questa dovrà essere una preoccupazione essenziale e non semplicemente accessoria, nella programmazione dei corsi.
Compete ai catechisti e ai professori di religione il compito unico di trasmettere la fede della Chiesa. La fede cattolica e la fede ebraica sono, secondo i termini di Papa Giovanni Paolo II, “legate al livello stesso della loro identità” (Roma, 6 marzo 1982). E una necessità vitale che i programmi di formazione alla catechesi e all'insegnamento rechino al futuro insegnante degli elementi della tradizione ebraica — biblica, ma anche rabbinica — e dalla pratica liturgica ebraica. I catechisti saranno così meglio preparati a condurre i loro studenti a realizzare in profondità l'esistenza del patrimonio comune a Giudei e Cristiani di cui ha parlato il Papa (ibid.) e a condividerne la ricchezze.
Questo compito spetta alle “organizzazioni diocesane e parrocchiali, alle scuole, collegi e università e in modo particolare ai seminari”. Lo mette in evidenza la Dichiarazione del Concilio sulla Chiesa e le religioni non cristiane (Nostra Aetate n. 4) e i documenti successivi della Santa Sede, come pure la Dichiarazione della Conferenza Episcopale cattolica degli Stati Uniti. È un dovere che “incombe agli insegnanti e ai teologi” precisa ancora il documento del 1975 (Conferenza episcopale cattolica degli Stati Uniti). Esso esige una documentazione abbondante a disposizione dei maestri e degli organismi di formazione all'insegnamento religioso (v. la bibliografia).

Redazione e apprezzamento critico dei manuali
Come ha dichiarato Monsignor Meija, che era membro della Commissione della Santa Sede per le relazioni con il Giudaismo al momento della promulgazione delle Note del Vaticano: “In effetti è impossibile presentare il Cristianesimo facendo astrazione dagli Ebrei e dall'Ebraismo, a meno di sopprimere l'Antico Testamento (Scritture ebraiche), dimenticare l'ebraicità di Gesù e degli apostoli, rigettare l'essenziale del contesto culturale e religioso della Chiesa primitiva” (Osservatore Romano, 24 giugno 1985). Se si vuole adempiere fedelmente il compito di presentare la storia della Chiesa del suo messaggio al mondo, bisogna cercare di dare del giudaismo del popolo ebraico un'immagine esatta, completa e positiva.
I progressi realizzati nelle relazioni fra Ebrei e Cristiani dopo il Concilio e sotto il suo impulso dovranno incoraggiare gli editori a cogliere l'occasione che si offre loro oggi di arricchire i manuali il materiale d'insegnamento audiovisivo con elementi tratti dal ricco patrimonio spirituale del giudaismo. I principi e le linee di condotta qui sopra esposte serviranno come base di referenza e come criterio a tutti coloro che sono implicati nella composizione la selezione delle opere di catechesi. L'esame dei manuali scolastici, libri di preghiera e altri materiali pedagogici, dovrà esser fatta sotto la responsabilità di istituzioni competenti. Si avrà cura di eliminare ciò che non è conforme alla lettera e allo spirito dell'insegnamento della Chiesa e ciò che non presenta sotto una luce positiva il molo sempre attuale del Giudaismo nella storia della salvezza.
Ritrovare le origini ebraiche del Cristianesimo e al tempo stesso rendersi conto della fruttuosa continuità dei legami della Chiesa con il popolo ebraico di oggi, è un passo che può arricchire
approfondire l'educazione cristiana in modo inestimabile.


Conclusione


Nei suggerimenti fin qui esposti, che vengono come complemento ai programmi d'educazione religiosa cattolica, ma non mirano a sostituirli, è stato posto l'accento sul “patrimonio spirituale comune” al Cristianesimo e al Giudaismo. Lo scopo non è quello di sminuire il carattere unico del messaggio di Gesù e della Chiesa, ma anzi quello di approfondire tale messaggio favorendo una presa di coscienza del suo legame con la testimonianza sempre attuale del popolo ebraico.
Rivolgendosi alla comunità ebraica della Grande Sinagoga di Roma, Giovanni Paolo II ha espresso questa prospettiva il 13 aprile 1986: “Ebrei e Cristiani son depositari d'un'etica segnata dai dieci comandamenti, nell'osservanza dei quali l'uomo trova la sua verità e la sua libertà. Promuovere una riflessione comune e una collaborazione su questo punto è uno dei grandi doveri dell'ora... Facendo ciò saremo fedeli ai nostri più sacri rispettivi impegni ma anche a ciò che ci unisce e ci raccoglie più profondamente: la fede in un solo Dio che "ama lo straniero" e "rende giustizia all'orfano e alla vedova" (Deut. 10,18) sforzandoci anche noi di amarli e di soccorrerli cf. ibid. e Lex. 19:18-34). Questa volontà del Signore, i Cristiani l'hanno imparata dalla Torab, che voi qui venerate e da Gesù che ha portato fino alle estreme conseguenze l'amore richiesto dalla Torah...
La religione ebraica non ci è "estrinseca" ma in un certo modo è "intrinseca" alla nostra religione. Voi siete i nostri fratelli maggiori...”


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I libri accessibili al largo pubblico sono segnati con un asterisco.


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Inserito 01/01/1970