Il mistero d'Israele (passi scelti)

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Maritain, Jacques (1882-1973)

Francia       1943

Il filosofo cattolico francese Jacques Maritain (1882-1973) fu un forte oppositore dell’antisemitsmo, come  dimostrano vivamente i passi sotto tratti dal suo saggio "Il Mistero d’Israele". Allevato in una famiglia  protestante liberale, incontrò la sua future moglie Raïssa Oumançoff, una ebrea russa, emigrate mentre studiava alla Sorbona. Nel 1906 si convertirono tutti e due al cattolicesimo. Il saggio, di cui sotto troviamo dei passi scelti, fu pubblicato la prima volta nel 1937 ma fu ristampato nel volume di Maritain del 1943 dal titolo “Redeeming the Time”. Come si può vedere sotto, egli aggiunse  a quel tempo una parte introduttoria. Come altri teologi cristiani del periodo che condannarono l’antisemitsmo (che si sarebbe rivelato grave nei decenni successivi, Maritain operò nella convinzione che poiché Israele aveva rifiutato Cristo gli ebrei erano segnati dall’inimicizia del mondo. Come ha osservato un commentatore recente: "Fino a che l’estensione del genocidio non divenne conosciuto durante la II Guerra mondiale, Maritain ...  si domandava a gran voce se o no il destino degli ebrei europei fosse parte del piano salvifico di Dio, con sei milioni di vittime ebree innocenti che seguivano la via percorsa da un innocente almeno due millenni prima” In questo modo egli fu un “filosemita ambivalente”. [Vedi  Richard Francis Crane, "Jacques Maritain, the Mystery of Israel, and the Holocaust," Catholic Historical Review (Jan 2009), 95/1: 25-56.]

 Fonte: La maggior parte dei passi scelti sono tratti soprattutto da J. Maritain, Il mistero di Israele, ed. Massimo, Milano 1992.  Altri brani, provenienti da Jacques Maritain, Redeeming the Time (London: Geoffrey Bles: The Centenary Press, 1946, terza ristampa), sono stati tradotti da Maria Brutti.

 

Desidero  premettere le seguenti riflessioni e alcune osservazioni preliminari.1

Il saggio che costituisce questo capitolo è stato scrit­to in Francia nel 1937. A quell'epoca, alcune pubblicazioni razziste di qualità molto bassa avevano già disonorato la stampa francese, ma  l'eventualità di mi­sure antisemitiche, come quelle che il governo di Vichy impose durante l'occupazione tedesca alla Francia vinta, sembrava inconcepibile e la vasta maggioranza del popolo francese ignorava o disprezzava i fermenti anti­semiti. Era possibile allora considerare il problema ebrai­co in modo puramente filosofico, con quella specie di di­stacco che è proprio della stretta oggettività intellettuale. Non so se,  di fronte al momento attuale potrò  procedere in questo modo. Non so se di fronte all’incubo anti-semitico che si diffonde come una epidemia mentale anche tra alcuni gruppi di persone democratiche, sia giusto parlare di tali problemi senza la nostra indignazione per l’iniquità e la spirituale spregevolezza che ora assalgono le menti e le nazioni.

Tuttavia la pubblicazione di queste pagine, scritte durante un periodo meno inquietante, può essere ancora appropriata.  Non dobbiamo mai disperare dell’intelligenza e del potere curativo del suo sforzo spassionato verso la comprensione. Forse posso ancora sperare che alcuni lettori che, sebbene in buona fede, sono toccata da slogan anti-semiti, saranno in grado di comprendere che il problema non dipende da pettegolezzi, da osservazioni anedottiche, da filosofie da salotto, vecchi pregiudizi o istintivi sentimenti congeniti, ma dai principi cruciali che guidano la storia umana e comandano la coscienza cristiana. Voglio sottolineare che l’indipendenza di giudizio mostrata in questo saggio riguardo a ciò che è bene e ciò che è male nel comportamento ebreo medio e nella psicologia ebrea media, presuppone e  include la stima e l’amore  più profondi  per il popolo ebraico; e questo deve essere compreso come il prerequisito normale per un esame del problema condotto “tra adulti”, come dice S. Paolo e sul piano di  intuizioni profonde, difficili date a noi dalla sapienza cristiana. Aggiungo che la prospettiva nella quale questo saggio è stato scritto non è psi­cologica né sociologica né etica, ma è innanzitutto metafisica e reli­giosa. Non ho cercato di caratterizzare l'aspetto empiri­co degli eventi, ma piuttosto il loro significato segreto e sacro. Ciò che ho cercato di spiegare ha significato solo se è preso nella sua totale unità. Se qualche frase in questo saggio fosse presa fuori dal suo contesto e isolata per sostenere o condannare, come se fosse mia, un’opinione che non è mia, tale sventura potrebbe nascere solo da un completo travisamento.

Se queste pagine saranno viste da lettori ebrei, spero che essi comprenderanno che, in quanto cristiano, potevo comprendere la storia del loro popolo soltanto da una prospettiva cristiana. Quando questo saggio venne pubblicato in Francia, ci furono alcuni che, guidati dal loro pregiudizio, tentarono di vedere intenzioni nascoste di proselitismo là dove solo un desiderio per la verità occupava la mia mente; altri presero come “rimproveri” personali ciò che costituiva solo una dichiarazione delle conseguenze del dramma del Calvario sulla relazione di Israele al mondo. Essi erano nell’errore. Sono perfettamente consapevole  che prima di essere concordi con le affermazioni proposte nel mio saggio, è necessario ammettere, come prerequisito, il punto di vista cristiano nella sua totalità; perciò sarebbe contraddittorio sperare un qualsiasi consenso da parte di un lettore che non si pone in questa prospettiva. Non è mia intenzione cercare di convincere un tale lettore ma, per la nostra mutua comprensione, penso che forse sarebbe interessante per lui sapere come un filosofo cristiano consideri questo problema.

Devo anche aggiungere che parole come "pena" o "punizione," che siamo costretti ad usare quando cerchiamo di  chiarire problemi umani dal punto di vista della conduzione divina della storia, devono essere private di ogni connotazione antropomorfica e divengono pietosamente  inadeguate se sbagliamo a fare così. In ogni caso, non c’è un abuso più assurdo che credere che sia affare di povere creature incoraggiare il loro orgoglio e l’ingiustizia applicando al loro prossimo, come se essi fossero la forza di polizia di Dio,  “ pene” e “punizioni” che riguardano soltanto il Creatore nelle Sue intime relazioni  di amore con coloro che sono stati chiamati da Lui.

D’altra parte, si deve notare che in questo saggio la parola “Chiesa” non è impiegata nel senso comune che essa trasmette nel linguaggio dei non credenti, dove denota solo un’organizzazione amministrativa – o le organizzazioni amministrative di varie denominazioni – incaricate della gestione di soggetti religiosi. Questa parola è impiegata in un senso preciso che veicola il  linguaggio della fede e della teologia cattolica. Essa designa una realtà visibile e invisibile, umana e divina, il Corpo mistico di Cristo, che è esso stesso un mistero, che porta in se stesso le mancanze e peccati dei suoi devoti membri ed è, nella sua vera essenza, vita e ispirazione – che riceve, nella misura in cui è un tutto vivente, dal suo Capo divino – senza nessuna mancanza, corrosione e contaminazione del demonio; ad esso tutti i battezzati, riuniti nella fede e nella dottrina cattolica, appartengono in modo visibile e, allo scopo di vivificare  l’anima di tutti gli uomini  di buona fede e di buona volontà che vivono per la grazia divina,  appartengono in modo invisibile.

 Infine, vorrei notare che le formule cristiane più appariscenti che concernono l’essenza spirituale dell’antisemitismo si possono trovare in un libro pubblicato di recente da uno scrittore ebreo, il quale sembra stranamente ignorare il loro significato profondamente cristiano.  Non so se  Maurice Samuel condivida la religiosità ebraica; forse è un’anima che cerca un Dio spoglio di ogni dogma definito, il quale si considerata “liberata” da ogni fede nella rivelazione divina, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento. La testimonianza che egli reca appare ancor più significativa. Poiché le intuizioni profetiche sono ancor più impressionanti quando passano attraverso profeti assopiti e ostinati, che percepiscono solo in modo oscuro ciò che essi ci trasmettono.

"Non capiremo mai," scrive Maurice Samuel, "l’immensa e folle portata dell’antisemitismo, se non a condizione di trasporne i termini. È del Cristo che i nazi-fascisti hanno paura; è nella sua onnipotenza che essi credono; è Lui che essi sono follemente decisi ad annientare. Ma le parole stesse “Cristo” e  “Cristianesimo” sono troppo  travolgenti e l’abitudine di rispettarle è  troppo profondamente radicata da secoli e secoli di insegnamento. Perciò essi devono, io ripeto, rivolgere i loro assalti verso coloro che furono responsabili della nascita e della diffusione del Cristianesimo.  Essi devono sputare sugli Ebrei come “coloro che hanno messo a morte il Cristo” perché essi sono ossessionati  dal desiderio di sputare sugli Ebrei come coloro che hanno dato al mondo Cristo."2

Il semplice fatto  non provare simpatia per gli ebrei o di essere più sensibili ai loro difetti che alle loro virtù non è antisemitismo. L’antisemitismo è la paura, il disprezzo e l’odio della razza o del popolo ebreo e la volontà di sottoporlo a misure di discriminazione.  Ci sono molte forme e gradi di antisemitismo. Senza parlare delle forme mostruose che noi abbiamo oggi sotto gli occhi, esso può prendere la forma un certo orgoglio e pregiudizio altezzoso, nazionalistico o aritocratico; o del semplice desiderio di sbarazzarsi di concorrenti intriganti; o di un tic di vanità mondana; o anche di una innocente mania verbale. Nessuna, in realtà, è innocente. In ognuna di queste forme è nascosto un germe, più o meno inerte o attivo, di quella malattia spirituale che oggi si sprigiona attraverso il mondo, in una fobia fabulatrice e omicida e la cui anima segreta è il risentimento contro il Vangelo,  – la Cristofobia»

  [...]

Gli Ebrei non sono una «razza» nel senso biologico di questo termine; si sa bene che nello stato attuale dell'u­manità, non ci sono razze pure per i gruppi di una qualche impor­tanza, anche per quelli che sono da questo punto di vista i più favoriti; e gli Ebrei sono ben lungi dal fare eccezione, perché i miscugli di sangue, le sovrappo­sizioni etniche, nel corso della loro storia, sono state altrettanto importanti quanto negli altri gruppi umani. Nel senso etico-storico, nella misura in cui il termine «razza» è  caratterizzato innanzitutto da una comunità di strutture mentali e morali, di esperienza ancestrale, di ricordi e di desideri, in cui la carica ereditaria, la qualità del sangue, il tipo somatico, svolgono una funzione più o meno importante, ma soltanto la funzione di basi materiali, gli Ebrei sono una razza, come gli Iberi o i Bretoni. Ma so­no molto di più ancora.

Non sono una «nazione», se con questo termine si in­tende una comunità storica, legata da unità di origine o di nascita (razza o insieme di razze storicamente unite nel senso etico-storico del termine «razza») e che conduce insieme una vita politica o che aspira ad una vita politica.[...]

Se si dà al termine «popolo» il semplice senso di mol­titudine raccolta in un'area geografica determinata e po­polante questa regione della terra (Daseinsgemeinschaft), gli Ebrei non sono un popolo. Nella misura in cui il ter­mine «popolo» è sinonimo di «nazione» non sono un «popolo»;nella misura in cui esso è sinonimo di «razza» (nel senso etico-storico), sono un popolo e più che un popolo; nella misura in cui quel termine designa una co­munità storica caratterizzata non, come la nazione, dal fatto (o dal desiderio) di condurre una vita politica, ma dal fatto di esser nutriti da una stessa tradizione spiritua­le e morale e di rispondere ad una stessa vocazione, essi sono un popolo e il popolo per eccellenza, il popolo di Dio. Sono una tribù consacrata; sono una casa, la casa d'Israele. Razza, popolo, tribù, tutti questi termini, per designarli, debbono essere sacralizzati.

Israele è un mistero. Della stessa natura del mistero del mondo e del mistero della Chiesa. Nel cuore, anch'essi, della Redenzione. Una filosofia della storia che poggi sulla teologia può cercare di prendere una qualche con­sapevolezza di questo mistero; ma esso la supererà sem­pre da ogni parte, perché le nostre idee e la nostra co­noscenza possono essere immerse in quelle cose, non circoscriverle.

Diremo poi che se san Paolo ha ragione, quello che si chiama il problema ebraico è un problema senza soluzio­ne, voglio dire prima della grande reintegrazione annun­ciata dall'apostolo e che sarà come una" resurrezione dai morti". Voler trovare — nel senso puro e semplice, nel senso decisivo di questo termine — una soluzione al problema d'Israele, è come cercare di arrestare il movi­mento del mondo.

Ciò che rende così debole, nonostante i suoi grandi meriti storici, la posizione liberale del XIX secolo, davanti a questo problema, è appunto che essa pretendeva presentarsi come una soluzione.

La soluzione di un problema pratico è la fine della di­scordia e del conflitto, la contraddizione superata, la pace. Dichiarare che per il problema d'Israele non c'è — as­solutamente parlando — soluzione, è come entrare nel conflitto e in una specie di guerra. Ci sono due modi per farlo: un modo animale,  entrare con la violenza e con l'odio, aperto o mascherato, prudente o rabbioso, in una guerra carnale diretta allo sterminio e all'estinzione o al­l'asservimento degli Ebrei, guerra del mondo e dell'homo animalis contro Israele. E la posizione antisemita. L'al­tro modo è propriamente cristiano. Esso consiste nel­l'entrare con la compassione nei dolori del Messia e con l'intelligenza della carità in una lotta spirituale diretta al compimento dell'opera della liberazione del genere uma­no, lotta della Chiesa e dell'homo spiritualis per la sal­vezza del mondo e la reintegrazione d'Israele; è la posi­zione cattolica o paolina, la quale, inoltre, vuole che si impegni nel temporale un costante lavoro di intelligenza concreta, che non risolve né supera definitivamente le antinomie, ma in ogni momento della durata inventa di che sopportarle e di che lenirle.

 [...]

È difficile non essere colpiti dalla straordinaria bassez­za dei grandi temi generali della propaganda antisemita. Gli uomini che denunciano la cospirazione mondiale di Israele per l'asservimento delle nazioni, l'assassinio ritua­le, l'universale malizia degli Ebrei, procurata dal Tal­mùd, o che spiegano come l'isterismo ebraico sia causa di tutti i mali sofferti dal dolicocefalo [dal viso lungo] biondo dagli occhi azzurri, caratteristica di quelle razze superiori nelle quali, per mala sorte, gli occhi neri e i capelli bruni si incon­trano con maggior frequenza, o come gli Ebrei siano uniti, come in un solo uomo, nel disegno di corrompere moralmente e sovvertire politicamente la cristianità, come appare da un documento palesemente inventato come i «Protocolli di Sion», insomma quelli che sanno che tutti gli Ebrei nuotano nell'oro e che tutto andrebbe bene sul­la terra se la si finisse una volta per tutte con questa raz­za immonda, sembrano nati apposta per testimoniare che è impossibile odiare ilpopolo ebraico restando intelli­genti. In questo curiosamente assomigliano a coloro che odiano i preti e citano i Monita secreta dei Gesuiti, o il fatto, ben conosciuto in alcune località isolate degli  Stati Uniti, che i preti cattolici sono corrotti.. Ad uno spirito attento, questa sorprendente bas­sezza appare essa stessa come inquietante, deve avere un senso mistico. La stupidità spinta troppo lontano, scon­fina col mistero, nasconde l'istinto profetico del mondo oscuro dell'irrazionale.

La tragedia d'Israele è la tragedia stessa dell'umanità, si è detto, ed è per questo che non c'è soluzione alla questione ebraica. Diciamo più esattamente: è la tragedia dell'uomo nella sua lotta con il mondo e del mondo nel­la sua lotta con Dio. Giacobbe sognatore e zoppicante, esasperatore appassionato del mondo e lamentoso, sof­ferenza del mondo, indispensabile al mondo e intollera­bile al mondo: così va l'Ebreo errante. La persecuzione d'Israele sembra il segno dei momenti di caduta in  que­sta tragedia, quando il gioco della storia umana rischia di arrestarsi, tanto le fatalità inseguono l'impossibile e quando, per ripartire, domandano dell'orrore nuovo. C'è una relazione sovra-u­mana di Israele con il mondo, così come della Chiesa con il mondo. È soltanto considerando questi tre termini che qualche idea del mistero d'Israele  può, magari enigmaticamente, essere formulata. Una specie di analogia capovolta con la Chiesa è qui, crediamo, l'unico filo conduttore. Per cer­care di scorgere un mistero di sofferenza alla luce di un mi­stero di grazia, si è così condotti ad usare, in un senso improprio,  idee e  vocaboli che sono propri di tut­t'altro oggetto.

Che Israele sia a modo suo un corpus mysticum,8 il pensiero ebraico ne è in se stesso consapevole.

Il legame che fa l'unità d'Israele non è soltanto il le­game della carne e del sangue o della comunità etico-sto­rica; e non è, tuttavia, il legame della comunione dei San­ti, quello che fa l'unità della Chiesa nella fede nel Dio incarnato e nel possesso della sua eredità.(Naturalmente Israele comprende il significato della comunione dei santi e la desidera ! Ma se è vero che il suo Cristo è venuto e che Israele non lo ha riconosciuto e così, in quel giorno, ha fallito nella sua fede e nella sua missione,  cosìsubito ha perso la fiducia di dispensare alle anime, attraverso i segni della Legge antica, la grazia del Cristo a venire, mentre allo stesso tempo ha  ripudiato il compitodi erogare alle anime, mediante l'efficacia della Nuova Legge, la  grazia di Cristo già venuto;  in altre parole, ha ripudiato il legame che avrebbe davvero creato la sua unità attraverso la comunione dei santi all'interno di un corpo mistico).

 Il legame di Israele rimane  un legame sacro e metastorico, ma di promessa, non di possesso, di nostalgia, non di santità. Agli occhi di un cristiano che si ricorda che le promesse di Dio sono senza pentimenti, Israele continua la sua missione sacra: ma nella notte del mondo che ha preferito a quella di Dio. (Vi sono molti ebrei che preferiscono Dio al mondo e molti cristiani che preferiscono il mondo a Dio. Ma io mi riferisco alla scelta che fecero le autorità religiose di Israele quando fu condannato il Figlio dell'Uomo e rifiutato il vangelo).Con gli occhi bendati, la Sinagoga cammina ancora nell'universo dei disegni di Dio. Questo cammino che essa fa nella storia, essa stessa non lo indovina che a tastoni.

Regno di Dio allo stato pellegrinale e crocefisso, la Chiesa è nel mondo e non è del mondo; e, per quanto essa soffra per il mondo, è libera dal mondo ed è già li­berata.

Popolo di Dio affamato del Regno e che non ha vo­luto Israele è nel mondo e non è del mondo; ma è spinto al mondo, sottoposto al mondo, asservito al mondo. Un giorno è inciampato ed eccolo ora preso nel­l'insidia; si è ostinato contro l'Eterno e in un'occasione che non può più ritornare! E non sapeva quel che faceva; ma i suoi capi sapevano bene di scegliere contro Dio. In uno di quegli atti di libero arbitrio che impegnano il destino della comunità, i sacerdoti di Israele, i cattivi cu­stodi della vigna, gli uccisori di profeti, con buone ragio­ni di prudenza politica, hanno optato per il mondo e a questa opzione tutto il popolo è ormai legato, fino a che non cambierà esso stesso. Crimine di prevaricazione cle­ricale, prototipo ineguagliabile di tutti i crimini simili.

Se l'idea del karma pecca nel fatto che, dall'ordine morale, esso trasferisce il castigo all'ordine puramente fi­sico, per contro la nozione occidentale di castigo è troppo spesso carica di antropomorfismo giuridico. Così la pena o il castigo non sono l'invenzione arbitraria di una ferita inflitta dal di fuori a un essere intatto per ven­dicare la legge; ma è — nell'ordine morale stesso — il frutto della ferita inflitta all'essere dalla sua libertà vo­lontariamente mancante e questo frutto naturale è la vendetta della legge. La pena è la conseguenza dell'erro­re; il nostro castigo è la nostra scelta. E' terribile cadere nelle mani del Dio vivente, poiché quelle mani danno ad ogni uomo ciò che il suo male ha stabilito.

Gli Ebrei (non i singoli ma il corpo mistico di Israele nel momento in cui urtò contro la roccia) hanno scelto il mondo; l'hanno amato; la loro pena  è di essere legati dalla loro scelta. Prigionie­ri e vittime di quel mondo che essi amano; di cui non sono, non saranno mai e non possono essere.

La Chiesa è universale, diffusa in tutte le civiltà e le nazioni come un'unità e comunità trascendente, nella quale, dal seno delle diversità temporali, tutti e ciascuno possono essere assunti, per esser resi membri della razza di Dio dal sangue vivificatore del Figlio di Dio. Il corpo mistico d'Israele è quello di un popolo particolare, la sua base è temporale e comporta una comunità di carne e di sangue; per diffondersi nell'universo, deve come disgiun­gersi da se stesso, spezzarsi e disperdersi. La diaspora, ­già cominciata prima dell'era cristiana, è la corrispon­denza terrestre e dolorosa della cattolicità della Chiesa.

Il corpo mistico d'Israele è una Chiesa precipitata. Non è una contro-Chiesa. Non più di quanto possano esistere dei contro-Dio, dei contro-Sposa. È una Chiesa infede­le (questo è il vero significato della frase liturgica, perfidi giudei, che non significa che tutti gli ebrei sono perfidi)9  e ripudiata (ed ecco perché Mosè aveva accordato figurativamente il libellum repudii), ripudiata come Chiesa, non come popolo. E sempre attesa dallo Sposo che non ha cessato di amarla.

[...]

Quelli che vogliono odiare un popolo non mancano mai di pre­testi e tanto meno quanto più la sua vocazione è singo­lare e la sua psicologia più contrastata. La sfacciataggine, l'ostentazione, l'instabilità, l'amor proprio, il senso quasi artistico del profitto, il mugolio enfatico quando l'inte­resse personale è leso, molti grandi difetti appaiono nel popolo dalla dura cervice e lo rendono irritante. Gli Ebrei sono, in media, più intelligenti e più rapidi dei Gentili. Se ne approfittano, prendono i migliori posti e non san­no farsi perdonare i loro successi. Il traffico di prestatori o di usurai, i diversi commerci e negozi di mediazioni che, certo, non sono soli a praticare, ma di cui hanno preso per forza il costume ereditario15 e in cui sono imbattibili, non sono fatti per attirare su di loro il favore della gente ugualmente decisa nel guadagno, ma meno abile di loro.

Essi si corrompono quando si adunano sugli altipiani della cultura per adorare gli idoli delle nazioni. E, come succede nelle altre famiglie spirituali, raramente sono i migliori, tra di loro, ad occupare la scena politica e i palchi della pubblicità.                  

Ecco molti pretesti contro gli Ebrei; ma se pretendono di giustificare l'odio e le misure di eccezione, questa specie di pretesti sono sempre ingiusti; se gli uomini non potessero sopportarsi che a condizione di non avere alcuna lamentela gli uni contro gli altri, tutte le province di un paese si farebbero costantemente la guerra.

E gli Ebrei hanno in maggior misura grandi qualità che grandi difetti. Quelli che li hanno frequentati abbastanza per penetrare la loro vita, sanno il valore incomparabile della bontà ebraica; quando un Ebreo è buono ha una qualità e una profondità di bontà che è raro incontrare nei popoli nei quali l'asprezza naturale ha subito meno la maturazione del dolore. Sanno di quali virtù di umanità, di generosità, di amicizia l'anima ebraica è capace; Peguy ha celebrato le sue amicizie ebraiche; è tra gli «aspri» Ebrei che si possono incontrare i più sragionevoli esempi di quella propensione naturale a dare, che non viene tanto da una volontà di carità, quanto piuttosto dal fatto che si è senza frontiere e senza difesa.  Nulla è più disarmato, più tenero della  bontà ebraica. Gli ebrei hanno fatto di più in tutto il mondo per la Conoscenza e Saggezza che per il commercio e il lavoro.  Un senso altissimo della purezza della famiglia e di tutte le virtù che      le  sono legate, ha caratterizzato per lungo tempo i costu­mi ebraici. E poi c'è la virtù umana fondamentale, la pa­zienza nel lavoro; c'è il gusto insopprimibile dell'indipen­denza e della libertà, il permanente ardore del vecchio istinto profetico, il fuoco dell'intelligenza, la vivacità del­l'intuizione e dell'astrazione, la facoltà di appassionarsi alle idee e di votarsi ad esse. Se è vero, come diceva Psi­chari, che Dio ama ancora più il peccato che la stupidità, si capisce il gusto che egli ha per gliEbrei (e per altri). Non ci si annoia mai con un Ebreo. La loro no­stalgia, il loro dinamismo, l'ingenuità delle loro finezze, la loro ingegnosità, la loro conoscenza della miseria, so­no dei rari tonificanti per lo spirito. Mi ricordo con qua­le gioia in una grande città degli Stati Uniti, dopo con­ferenze e conversazioni universitarie, andavo, io che so­no un goi, da alcuni amici ebrei per sprofondarmi nella vitalità di quel pathos infaticabile e di quel perpetuo mo­vimento delle idee e delle mani che evocava per me lun­ghi secoli di raffinamento doloroso dell'anima e dell'in­telligenza.

Ma quello che importa innanzitutto sottolineare è che le diverse cause particolari che l'osservatore può riferire all'antisemitismo,16 dal sentimento di odio per lo stra­niero, naturale al gruppo sociale, fino agli inconvenienti sociali prodotti da certi arrivi di immigranti e alle varie lamentele indicate più su,17 dissimulano una radice di odio ancora più profonda. Se il mondo odia gli Ebrei è perché sente bene che gli saranno sempre soprannaturalmente estranei; è perché detesta la loro passione per l'assoluto e l'insopportabile stimolo che essa gli dà. È la vocazione di Israele che il mondo va esecrando; — questa esecrazione della pretesa razza concerne in realtà la vocazione (o le varie forme di manifestazione temporale che esteriormente esprimono e mascherano questa vocazione. Odium generis humani. Odio del mondo è la loro gloria come è anche la gloria di quei cristiani che vivono della fede: ma i cristiani – in virtù del loro Corpo Mistico -   hanno vinto il mondo18 e gli Ebrei non l'han­no vinto (ed è per questo che diventare cristiano, per un Ebreo, costituisce una duplice vittoria, il suo popolo trionfa in lui. Guai all'Ebreo che va bene a tutti, come anche al cristiano che va bene a tutti. Forse viene il tem­po, e in certe nazioni è già venuto, in cui la testimonian­za dell'uno e la testimonianza dell'altro, essendo ugual­mente considerate intollerabili, saranno odiate e perse­guitate insieme; e, uniti nella persecuzione, ricondotti in­sieme alle loro sorgenti.

[...]

Il fatto centrale, che ha il suo più profondo significato per la filosofia della storia e per il destino umano - e che nessuno sembra tenerne conto -  è che la passione di Israele oggi va sempre più prendendo distintamente la forma della Croce. Cristo crocifisso estende le sue braccia verso sia gli ebrei che i gentili ; Egli è morto, dice San Paolo, allo scopo di riconciliare i due popoli, e per rompere la barriera di inimicizia tra loro.

" Egli infatti è la nostra pace,

colui che di due ha fatto una cosa sola,

abbattendo il muro di separazione che li divideva,

cioè l'inimicizia, per mezzo della sua carne.

Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti,

per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo,

facendo la pace,

e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo,

per mezzo della croce,

eliminando in se stesso l'inimicizia"29

Se il popolo ebraico non ha ascoltato la chiamata fatta ad esso dal Cristo morente, tuttavia rimane sempre chiamato. Se i gentili hanno udito la chiamata, ora il paganesimo razzista li allontana da essa e da Colui che è la nostra pace.  L'odio antisemita  è direttamente un delirio anticristico per rendere vano il sangue di Gesù e per rendere nulla la Sua morte. La riconciliazione, rompendo la barriera dell'inimicizia - quella, che la pazzia umana ha impedito all'amore di realizzarsi, e la conseguente frustrazione  è il più raffinato tormento nelle sofferenze del Messia-  quella  agonia ora è il modo di raggiungere un'agonia universale simile a quella del Salvatore, sia l'agonia degli ebrei  abbandonati e oppressi sia degli abbandonati e oppressi cristiani che vivono per fede. Più che mai il corpo mistico di Cristo ha bisogno del popolo di Dio. Nell'oscurità del presente  quel momento sembra essere , in modo invisibile, in preparazione, comunque remoto possa essere, quando la loro reintegrazione, come afferma San Tommaso nel commento all'Epistola ai Romani   "riporterà alla vita i gentili, cioè i fedeli tiepidi, quando  'per il dilagare dell'iniquità, si raffredderà l'amore di molti' (Matteo 24,12).30

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Note

1. Un mio studio, A Christian Looks at the Jewish Question (New York, Longmans, 1939), sui processi ora subiti da Israele in alcuni paesi, contiene materiale che integra dal punto di vista storico le considerazioni di natura filosofica qui esposte.

2. Maurice Samuel, The Great Hatred, New York, Knopf, 1940.

8. Cf. Erich Kahler, Israel unter den Volkern, Humanitas Verlag, Zurich.

9. Cf. Erik Peterson, Perfidia Judaica, in Ephemerides Liturgicae, 1936. L’autore mostra che nella letteratura patristica la parola  perfidia è usata nel senso di  “non credente” o “infedeltà” soprattutto in riferimento agli Ebrei e che questo è il significato originario dell’espressione liturgica, perfidia Judaica; il cambiamento successivo di significato avvenne nel Medioevo quando questa espressione assunse nell’uso popolare il senso di perfidi, allo stesso tempo insinuando (nel IX secolo) l’omissione della genuflessione nella preghiera per gli Ebrei durante il Venerdì Santo. Si deve sperare che una innovazione fatta nel IX secolo possa essere cambiata in futuro.  

15.  In determinatecondizioni storiche si rivolgono di preferenza a certi tipi di professioni, soprattutto le professioni liberali. In diverse condizioni storiche si rivolgono altrove. Il colono sionista è solo un esempio, dimostrando  che un "ritorno alla terra" e all'agricoltura è possibile per molti ebrei.

16. Una buona analisi sociologica di quelle cause si può trovare nell’opera già citata di  Arthm Ruppin.

17. Per i vari argomenti di basso livello, superficiali, sciocchi o sofistici comunemente usati nella propaganda antisemita, vedi il mio libro, A Christian Looks at The Jewish Question, pp. 3-9.

18. I veri cristiani l’hanno superato per la vita eterna.  I comandamenti di Dio non sono gravosi, ha scritto san Giovanni,, "4Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. 5E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?  (1 Gv 5,4-5)

29. Ef 2, 14-16

30. San Tommaso d’Aquino, Lettera ai Romani, 11,2.

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Inserito 11/02/2014