Giovanni XXIII, Jules Isaac, “nostra aetate”. Testimonianza

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Vingiani, Maria

Italia       04/2002

E’ il tema di grande attualità del “dialogo ebraico cristiano” su cui siamo invitati a riflettere insieme, in questo nostro Convegno nazionale di Delegati per l’ecumenismo in Italia; e lo faremo con particolare riferimento alla rilevanza ecumenica di Nostra Aetate, ma a partire, come mi è richiesto in chiave di testimonianza, dalla memoria dei due straordinari protagonisti che ne furono i profeti e i promotori esigenti e decisivi.

Il “dialogo” ebraico cristiano (l’iniziativa, come vedremo, fu ebraica) ebbe infatti il suo inizio formale solo alla vigilia del Concilio Ecumenico Vaticano II°, nell’incontro storico tra  Jules Jsaac e Giovanni XXIII: due credenti autentici con il culto della Parola di Dio, con una grande passione per la Verità e per la Storia illuminata dalla Rivelazione; due umanisti, come testimonia tutta la loro opera, veri uomini di dialogo e di pace. Il debito di riconoscenza e di amore che ho, anche personalmente, con loro, mi obbliga ad una sia pure breve testimonianza, nell’intento che  ci torni utile a cogliere meglio e a meglio responsabilizzarci sulla svolta di verità di Nostra Aetate che, attraverso un iter complesso e tribolato, è miracolo e dono  avere ricevuta.

Essa chiude definitivamente il tempo apologetico, dell’odio  teologico e dell’inimicizia fino alla possibile eliminazione dell’altro, di cui è testimone tragico lo Storico ebreo Jules Jsaac; e apre al tempo dell’etica, dell’amicizia e del dialogo fraterno, di cui è testimone umile e coraggioso Papa Giovanni XXIII.

GIOVANNI XXIII E JULES JSAAC

Ho avuto la ventura e la grazia di un felice rapporto con entrambi per ragioni culturali nel mio periodo di impegno veneziano, come Assessore alle Belle Arti della Città. Erano gli anni del Patriarcato di Angelo Giuseppe Roncalli che era giunto nella primavera del 1953, da Parigi, con  all’attivo una lunga esperienza, in qualche modo ecumenica: esperienza di convivenza con grosse comunità ortodosse o musulmane  a Sofia, Atene, Istanbul (dove era Nunzio apostolico di un cattolicesimo minoritario) e conoscenza di prima mano del protestantesimo  francese. Quasi 30 anni all’estero, in contesti così diversi da quello italiano,  avevano  potenziato in lui qualità umane e pastorali di stile autenticamente evangelico e di sorprendente novità. Peculiare la sua passione per la “Storia” riscoperta come luogo di salvezza; letta a partire dai “segni dei tempi” , “segni dello Spirito”. Di qui l’ottimismo e la speranza: il rispetto e la stima del ruolo dei laici in cui riponeva la speranza profetica del Regno; l’interpretazione positiva del mondo nel rifiuto della  “condanna” per la “misericordia”; nella distinzione tra “errore” ed “errante”, ideologia e movimento; il tutto  fondato nel culto per la Bibbia, la fedeltà alla Verità della Scrittura. La sua prima predicazione in S. Marco, per la settimana dell’Unità della Chiesa, nel ’54, non faceva cenno alcuno alla imperante “teologia del ritorno”, quasi  ammissione, così  mi sembrò all’ascolto, che tutte le Confessioni Cristiane, anche il cattolicesimo, dovessero mettersi in discussione.

La “visita di cortesia” –come Lui stesso la definì-  che mi riuscì di ottenere nel ’55 (16-5) per  i Pastori delle chiese evangeliche attive in città (Valdese, Metodista, Luterana) era espressione di umana cordialità o, già, riconoscimento di una loro legittimità evangelica? Perché, allora, si trattava di “eretici” e l’udienza,  sulla quale espresse poi  commozione e rammarico per i lunghi  secoli di conflitto, non ebbe riscontro nell’agenda diocesana  “quasi timoroso, come scrisse il suo segretario particolare Mons. L.F. Capovilla , di lasciare traccia di un incontro clandestino”, incontro il cui argomento non si discostò dalla Parola di Dio, autorità e norma di fede per tutti i Cristiani.

Perciò non mi stupì, pur  novità unica per l’epoca, la “Lettera pastorale”  dell’anno successivo, per la quaresima del ’56, sulla “Sacra Scrittura” che il Patriarca indirizzò ai Veneziani in occasione della celebrazione centenaria di S. Lorenzo Giustiniani, Protopatriarca della città. Vi si affermava la centralità della Bibbia nella vita della Chiesa; il libero accesso ad essa, privato e personale, anche ai laici, sollecitati  ad attingere  e a nutrirsi della Parola di Dio per la loro formazione e vita cristiana;  l’appello era ad assumere tutta la Scrittura , Antico e Nuovo Testamento, straordinario annuncio già preconciliare; la Scrittura ebraica non era ancora accessibile ai laici!

Del resto, nello stesso anno (1956) benedicendo accanto a me madrina,  una linea marittima Venezia-Haifa, promossa dal Comune (con medaglia ricordo ad entrambi) , l’affermazione, in  sordina che “era  buona cosa” ma che “sarebbe stato meglio un ponte tra Roma e Gerusalemme” mi lasciò senza parole. Era l’altra novità della sua apertura di fede e di cuore, ancora poco nota e, per l’epoca proibitiva; non si conosceva ancora il ruolo coraggioso in cui Roncalli si era speso senza riserve, in Oriente, a difesa di tanti ebrei, adulti e bambini, sottratti con iniziative incredibili alla “soluzione finale”.

Così non lasciò indifferenti il suo atteggiamento accogliente, con messaggi telegrafici incoraggianti, alle svolte socio politiche della vita amministrativa, politica e culturale della Città; l’apertura alla fiducia e al dialogo, con ogni diversità, gli era propria.

In questo crescendo di novità, di grande speranza per me, i rapporti con lui da ufficiali, intesi alla tutela e valorizzazione del patrimonio artistico e culturale di “doppia” proprietà (Chiesa e Comune), divennero presto più personali e spirituali; la mia scelta di portare nei Paesi dell’Est a regime  totalitario Mostre antologiche d’arte veneziana, e piecès Goldoniane, per riaprire alla  provocazione liberante dello scambio culturale paesi chiusi entro la “cortina di ferro”, -come  Polonia, Cecoslovacchia, Romania e Jugoslavia- mi permise di essere tramite di messaggi riservati del Patriarca- da me stessa chiesti per i suoi fratelli Vescovi, per lo più agli arresti domiciliari (come S.K. Wyszynsky, e  G. Beran).

Consegne poi risultate rischiose, al limite dell’incidente diplomatico, ma feconde di rapporti liberanti appena Roncalli fu Papa e si aprì un varco verso i Paesi dell’Est da decenni chiusi all’Occidente.

Alla fine  del ’58 come umile pastore, Roncalli  lasciò Venezia per il Conclave senza ritorno, e già il 25.1.59, nello stupore generale, annunciò il Concilio per il  rinnovamento della Chiesa e il dialogo ecumenico che il mondo intero attendeva. Ma in Città  nessuno aveva previsto nulla del genere; solo un  altro profeta – di cui passo a fare memoria- l’ebreo franese Jules Jsaac, al quale nel ’57 dalla finestra del mio studio, in Piazza S. Marco, indicavo il Palazzo Episcopale ove operava il Patriarca, donatoci giusto dalla Francia, quasi assorto e  lapidario pronunciò quel “ Non resterà qui molto” che, al momento, mi aveva lasciata del tutto scettica e indifferente. Un anno dopo Roncalli era Papa.

 

Con Jules Jsaac il mio rapporto fu altro, ma non meno profondo,  favorito anch’esso dal mio impegno pubblico a Venezia, internazionalmente aperto per la stessa missione culturale della Città.

Inatteso e sconosciuto mi si presentò alla sede delle Belle Arti il 16.9.57 con il suo libro (di fuoco) già dedicatomi (perciò ne ricordo il giorno e l’ora...) “Jésus et Israel” (Fasquelle 1948). Molto sordo e anziano, era accompagnato dal figlio Jean Claude, miracolosamente sopravvissuto alla Shoah, ancora quasi  larva d’uomo per i segni incancellabili della “catastrofe”.

Lo scopo della visita? Nell’emozione grande dell’incontro, ancora oggi mi è difficile precisarlo; implicitamente: coinvolgermi nell’allargamento delle relazioni ebraico-cristiane (le “amicizie”) da lui avviate in Francia, e più far conoscere il suo libro in Italia allora ignorato mentre –con grande rumore- era già alla II edizione in Francia. Rapporti di amicizia con qualche ambiente francese da me contattato, in tempo di studi universitari, per una tesi di  laurea sulla controversia dottrinale cattolico-protestante al sud della Francia, o, più recentemente un paio di esposizioni d’arte grafica e rinascimentale veneziana a Parigi, mi avevano certamente segnalata a Lui allora  Ispettore Generale della Pubblica Istruzione, come persona culturalmente attiva e inserita. Ma il coinvolgimento  andò molto oltre. Mi raccontò della sua vita di ebreo francese assimilato culturalmente, spesa nella ricerca della giustizia e della verità storica, con una serie di scritti che qui è impossibile citare, ma di grande effetto nelle battaglie civili e culturali del primo novecento e del suo lungo magistero storico –pedagogico di educatore di generazioni di giovani, fino alla cattedra universitaria. Il passaggio per la discriminazione  antisemita, tragica per tutti i suoi cari agli inizi degli anni ’40 e, quindi la presa di coscienza della sua ebraicità, lo portarono alla ricerca biblico-teologica delle radici cristiane di quel “mistero di iniquità” che al cuore dell’Europa cristiana si era abbattuto sulla sua gente destinata allo sterminio totale.

“Cristiani non dimenticate” era il primo titolo di questa appassionata ricerca che risuonava già come  accusa e invito ad un rigoroso ravvedimento, “Ci sono –scriveva- in ogni vita religiosa, delle purificazioni che si impongono, che non si possono rimandare: il male va estirpato subito”. Un processo di rinnovamento nel quale si sentiva, lui pure, coinvolto come ebreo: “A quali profondità scendevano le radici ebraiche del rifiuto di Gesù e le radici cristiane dell’antisemitismo, mi fu  ogni giorno più sconvolgente . . . “.

Era qui in questo interrogativo etico lacerante, la scelta di una missione eroica, a servizio della Verità, per la quale cercava condivisione e sostegno e nella quale  -in qualche modo- mi coinvolse incondizionatamente (dal primo incontro, fino all’ultimo del 31.8.63 ad Aix, in Provenza ove sapendolo grave ed angosciato, ero andata ad assicurargli la continuità del Concilio per volontà di Paolo VI,  5 giorni prima della sua morte) con quel suo commosso riferimento: “au pacte d’alliance  conclu à Venise”.

A esso fece appello anche in relazione all’udienza  chiesta a Giovanni XXIII, il Papa di tutta la sua  speranza, sapendo che all’annuncio del  Concilio l’avevo seguito a Roma, lasciando l’assessorato, la politica, la  famiglia, tutto; convinta come ero che quell’evento, unico, andava vissuto da vicino, magari dall’interno, come in qualche caso mi capitò, con il massimo coinvolgimento. Il Papa stesso aveva condiviso la mia  scelta e , trasferitami con la scuola, a Roma , in continuità con l’esperienza di dialogo già avviata a Venezia, iniziai la svolta romana del mio impegno, dandogli più evidente legittimità e respiro nazionale.

J. Jsaac preparò per l’incontro e spedì al Papa, un Dossier dal forte titolo “Della necessità di una riforma dell’insegnamento cristiano nei confronti di Israele. Memoria presentata dal prof. Jules Jsaac, presidente d’onore delle amicizie ebraico-cristiane di Francia. Ispettore della Pubblica Istruzione, Storico, famiglia massacrata ad Auschwitz e Bergen Belsen”. Ce n’era abbastanza per allarmare l’ambiente di Curia, già tutta tesa a frenare le esuberanze del  nuovo pontificato. Di fatto Papa Giovanni mai ricevette quel dossier  (A distanza di anni, citandolo, in occasione della presentazione del libro su Bea “Il Cardinale dell’Unità”, assieme al Card. G.Willebrands e all’autore Pr. Stefano Schmidt, mi son trovata ad essere l’unica  a possederne copia con dedica e solo allora l’ho segnalata). Né dovette essere più lieve l’urto con Roma di una conferenza alla Sorbonne che lo Storico ebreo tenne il 15 dicembre del ’59, con grande rilievo di stampa, e nella quale, sullo stesso tema (“L’antisemitismo ha radici cristiane?”), annunciava l’incontro con il Papa.

Invitata, non mi riuscì di essere presente ma una serie di suoi messaggi mi coinvolgevano già all’incontro romano, quasi nel presagio che ci sarebbero stati problemi.

E i problemi ci furono e, a  udienza già fissata tramite l’Ambasciata Francese, per il 9.6.60, Jules Jsaac fu accolto in Vaticano con un rifiuto: il Papa, troppo impegnato per la preparazione del Concilio, non poteva riceverlo.........

Una telefonata dall’hotel Commodore, dove lo Storico aveva preso alloggio, mi allertò e lo trovai in lacrime: “Qui non si vuole che io veda il Papa, è l’ultimo mio viaggio possibile; è l’ultima speranza mia e della mia gente!” (84 anni, già gravemente ammalato...): “Appujè moi, appujè moi, ma petite Marie, de toutes vos farces!” Di qui la mia piccola parte, convinta ormai della necessità che non tanto lui ma il Papa lo dovesse incontrare e prendere in consegna le sue istanze come Chiesa, e Chiesa in Concilio. Le amicizie veneziane mi giovarono e l’incontro ebbe luogo “per vie legittime, pur se improprie”, come da recente affermazione, in un servizio alla CEI, di Pr. Stefano Schmidt già segretario particolare del Cardinale Bea e a lungo impegnato al Segretariato Vaticano per l’ecumenismo e il dialogo.

Il 13 giugno del 1960 si trovarono di fronte due uomini antichi, piegati dagli anni e dalla malattia ma decisi e dinamici; incontratisi in tempo, al tramonto della loro vita terrena, per metter fine ad una iniquità e dare avvio al cambiamento, nella riconciliazione sulla Verità.

La  consegna era avvenuta: Giovanni XXIII l’aveva  fatta propria affidandola al Concilio tramite il grande biblista di sua fiducia Agostino Bea, che, per le resistenze che dovette vincere tra i Padri conciliari, passò come “la coscienza etica” del Vaticano II. La bozza  di documento da Lui preparata, fu bocciata già prima dell’apertura del Concilio, perchè argomento estraneo alle sue finalità, da parte della Commissione preparatoria. Il coraggio di Papa Giovanni che, ormai vicino alla fine scrisse una lettera autografa il 13.12.62, richiamando al Concilio la gravità e la responsabilità del problema ebraico, consentì al Cardinale Bea di riproporlo –in forza del mandato etico del grande Papa defunto- alla terza sessione dell’Assise ove fu largamente accolto,  come documento autonomo. Ma alla  quarta ed ultima sessione del Concilio il pronunciamento passò (il 28.10.65) ma, purtroppo, completamente modificato, ridotto alla nota 4 della “Dichiarazione sulle Religioni non  Cristiane”: Nostra Aetate. Con il limite, certo, di avere collocato l’Ebraismo nel  contesto dei non cristiani, quasi si possa considerarla religione alla stregua dell’Induismo o del Buddismo, ma  pur ridotta all’essenziale, la “Dichiarazione” sulle relazioni del Cristianesimo con l’Ebraismo è di correzione di rotta, irreversibile e radicale. E di questo dobbiamo rallegrarci.

Essa impone conoscenza e rapporto nuovo dei catolici con Israele, purificato da ogni possibile pregiudizio ed eviazione teologica.

NOSTRA AETATE

E’ di tutta novità, infatti, nella Dichiarazione Conciliare, la riscoperta della identità e del ruolo di Israele nel piano della Salvezza, e la sua collocazione nel “vincolo” di cui la  chiesa, “scrutando” se stessa, diventa consapevole. Un “vincolo” tutto da approfondire, che lega e distingue, che vincola, appunto, al livello più profondo della reciproca identità e missione, e accomuna ebrei e cristiani nello stesso destino storico ed  escatologico.

In questo contesto Nostra Aetate fa giustizia dei falsi storici e dei miti tologici che hanno fatto guasti e lacerato i rapporti nel corso dei secoli. Degli ebrei è “l’adozione a figli, la gloria, l’alleanza, la legge, il culto,le promesse”, mai revocate (Rm. 9-11). E’ cancellata l’accusa assurda e infamante di “deicidio”, e l’interpretazione della “dispersione” di Israele come condanna divina; è corretta la teologia della “sostituzione”; è fatto obbligo a tutti di “non insegnare alcun che, che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo”. Nella riscoperta di così “grande patrimonio comune” Israele entra nella coscienza della Chiesa; nel “vincolo” è “la radice dell’ulivo buono” su cui sono innestati i rami dell’”ulivo selvatico”; a fondamento del Cristianesimo, Israele  testimonia dell’Unicità di Dio in cui è già data e ha consistenza, tramite Gesù ebreo, l’Unità della Chiesa e dei cristiani. E’ quì la forte valenza ecumenica del pronunciamento conciliare confermata e approfondita poi dall’eccezionale sviluppo di riflessione e documenti del Magistero, che  certamente abbiamo presenti e che hanno dato spessore biblico-teologico alla nostra formazione e impegno ecumenico. Israele, come comunità di fede è parte integrante della questione ecumenica, è al cuore e a  fondamento della riconciliazione dei cristiani divisi, quanto mai  urgente, perché sia credibile e concorde l’annuncio della Salvezza, in Cristo, al mondo contemporaneo.

Con questa impostazione dottrinale e metodologica, opera da più di 50 anni, in Italia, il  SAE, un movimento interconfessionale di laici (Segretariato  Attività Ecumeniche) da me avviato nei lontani anni veneziani, rilanciato da Roma e a livello nazionale sulla scia  dello slancio e della speranza conciliare, che si definisce appunto Segretariato per la formazione ecumenica di base, “ a partire dal dialogo ebraico-cristiano”. Un itinerario che, pur tra non poche incomprensioni e difficoltà iniziali, alla verifica di tanti anni di esperienza, non solo risulta aver dato, al SAE stesso, grande apetura e arricchimento spirituale, ma ha favorito spessore biblico-teologico alle varie espressioni del “dialogo” in Italia, il quale ha avuto in questa impostazione un riferimento essenziale e la ragione di una particolare correttezza e fecondità. Ne è frutto la “Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo religioso ebraico-cristiano” che su proposta del SAE  la conferenza Episcopale Italiana ha fatto propria,  nell’89 fissandola al 17.1 di ogni anno, significativamente alla vigilia della Settimana di preghiera universale per l’unione dei cristiani (18-25.1). Iniziativa che, come già nella collaborazione con il SAE, ha visto il pieno consenso e l’adesione attiva delle comunità ebraiche italiane, come di tutte le  altre chiese cristiane.

Anzi, insieme, in delegazione all’Assemblea Ecumenica Europea di Graz nel ’97, questa iniziativa del Cattolicesimo italiano è stata avanzata con forte determinazione tra le proposte italiane ed è stata accolta e condivisa dalle Chiese europee. Una affermazione che naturalmente va accompagnata e favorita in fedeltà, con l’apporto di tutti e a tutti i livelli, a cominciare dalle parrocchie, seminari, comunità locali, in tutti i luoghi della formazione e dell’insegnamento perché dia i frutti auspicati dallo stesso  ideale ispiratore  Jules Jsaac. Il quale, lacerato dal dramma dei suoi più cari  ad Auschwitz, “massacrati per il solo fatto di chiamarsi Isaac (v. Dedica di Jésus et Israel: “A ma  femme, à ma fille martyres, tuées par les nazis d’Hitler: tuées simplement parce qu’elles s’appelaient Jsaac- Fasquelle 1948)- così annotava nel Dossier preparato per l’incontro con Papa Giovanni: “Se si vuole venire a capo dell’antisemitismo di matrice cristiana (due parole che accoppiate stridono) bisogna affrontare l’insegnamento perché esso è la base di tutto; l’insegnamento in tutti i gradi e sotto tutte le forme, la predicazione compresa! Solo l’insegnamento può disfare ciò che l’insegnamento ha fatto.   L’insegnamento del disprezzo è durato fin troppo, non ha fatto che troppo male, non ha più diritto di esistere”.

E non esisterà. È entrato in giudizio e sotto condanna in dichiarazioni ufficiali di Concilio e Sinodi cristiani, dovunque, con l’effetto di un clima di riconoscimento reciproco che ha già dato frutti di pace religiosa e di condivisione, nel comune impegno storico, delle stesse esigenze etiche dell’Alleanza. Ma altri frutti attendiamo al livello più profondo della vita di fede, proprio dalla Giornata dell’Ebraismo per la quale –quasi  scuola di formazione di base- la consegna del  cambiamento riguardo a Israele, che strinse in un patto di alleanza Papa Giovanni e Jules Jsaac, è passata nella nostre mani, responsabilizzandoci a tutti i livelli della vita ecclesiale e della testimonianza.

Con grande emozione e riconoscenza, assieme all’Arcivescovo Loris F. Capovilla (forse i soli testimoni di quell’Evento), con amici cattolici ed ebrei incontrati sul posto, abbiamo inaugurato il 6.4.97, sulle colline di Nazareth una Foresta intestata a Jules Jsaac e Giovanni XXIII, aperta sull’ampia pianura di Gerusalemme. Una  stele marmorea immortala lo storico incontro ed è segno di benedizione e di speranza.

A noi la portata del loro messaggio spirituale vieta di fermarci alla memoria. La consegna è a viverlo come “memoriale”, con la forza profetica con cui ci fu donato: per sconfiggere ogni involuzione sempre in agguato; per affrettare la riconciliazione religiosa nella comunione di destino e costruire insieme, cristiani ed ebrei,  per l’umanità tutta, un futuro di fraternità, di giustizia, di pace.

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Inserito 11/01/2015