Di Segni, Riccardo
Italia 17/01/2016
Benvenuto, papa Francesco,
nel Tempio Maggiore di Roma; nel luogo che fu edificato a segno della libertà ottenuta dopo secoli di restrizioni e di umiliazioni; nel luogo visitato da re, presidenti, ministri; offeso dai nazisti e insanguinato dal terrorismo palestinese; ma soprattutto nella casa di preghiera in cui gli ebrei romani hanno celebrato e continuano a celebrare i momenti più importanti della loro vita privata e collettiva. Oggi il Tempio accoglie con gratitudine questa terza visita di un papa e vescovo di Roma. Secondo la tradizione giuridica rabbinica, un atto ripetuto tre volte diventa chazaqà, consuetudine fissa. E’ decisamente il segno concreto di una nuova era dopo tutto quanto è successo nel passato. La svolta sancita dal Concilio Vaticano cinquanta anni fa è stata confermata da numerosi e fondamentali atti e dichiarazioni, l’ultima di un mese fa, che hanno prima aperto e poi consolidato un percorso di conoscenza, di rispetto reciproco e di collaborazione.
A ricevere papa Francesco è la Comunità ebraica di Roma. Lo accogliamo nella consapevolezza di essere una comunità di fede con una vocazione antica e sacra, che, come fu promesso ad Abramo, invoca la benedizione su chi ci benedice. Nel nostro pubblico è qui presente la memoria storica della comunità, gli ormai purtroppo pochi sopravvissuti agli orrori dei campi di sterminio, i feriti degli attentati terroristici, ma anche i testimoni e i protagonisti dell’intensa vita organizzativa e religiosa di questa nostra comunità, che non solo resiste alle seduzioni del tempo ma investe le sue energie in una crescita spirituale e sociale fedele agli antichi insegnamenti. Una dimostrazione bella e costruttiva di testimonianza di valori in una società che stenta a trovare la sua strada. Insieme agli ebrei romani sono qui i rappresentanti dell’ebraismo italiano e dell’ebraismo mondiale, rabbini italiani, delegazioni rabbiniche israeliane e europee e rappresentanti del governo e dello Stato d’Israele. E anche tante persone che lavorano attivamente per consolidare un rapporto di amicizia tra le persone delle due fedi. Questo evento non è evidentemente limitato alla comunità ebraica geograficamente più vicina al cuore del cattolicesimo. E’ un evento la cui portata si irradia in tutto il mondo con un messaggio benefico.
La visita di papa Francesco avviene all’inizio di un anno speciale per i cristiani, da Lui indetto. La Bibbia ha istituito il Giubileo, che il popolo ebraico non ha potuto più celebrare nelle forme prescritte perché legate a particolari condizioni storiche e politiche; ma l’idea originale della Torà rimane comunque valida in quanto rappresenta un modello di rifondazione della società sulla base della dignità, dell’uguaglianza e della libertà. In ogni caso il popolo ebraico mantiene il conto degli anni sabbatici che moltiplicati per sette sono la base del Giubileo; nell’anno sabbatico -l’ultimo è appena trascorso- la terra d’Israele deve riposare e i debiti vengono rimessi. Tra pochi giorni festeggeremo il capodanno degli alberi, anch’esso collegato al ciclo agricolo della terra d’Israele. Tanti segni che ribadiscono il rapporto essenziale e religioso che abbiamo con la terra che ci è stata promessa. Comprendere questo legame non dovrebbe essere una difficoltà per chi rispetta la Bibbia, ma lo è ancora.
In questi giorni in cui i cristiani celebrano con antichi riferimenti e nuovi significati un anno speciale centrato sul tema della misericordia, non ci è sfuggito il momento iniziale in cui all’apertura della porta è stata recitata la formula liturgica “aprite le porte della giustizia”. Per un ebreo che ascolta, è qualche cosa di noto e famigliare, è la citazione del verso dei Salmi (118:19) pitchù li sha’arè tzèdeq, che noi citiamo nella nostra liturgia festiva. E’ un confronto interessante. L’evento della cristianità centrato sulla misericordia mantiene un rapporto con le origini bibliche, usa i versi dei Salmi, da cui riprende il tema della giustizia che è indissociabile dalla misericordia. E’ un segno di come le strade divise e molto diverse dei due mondi religiosi condividono comunque una parte di patrimonio comune che entrambe considerano sacro. Questa divisione è un dato storico antico. Nelle diverse visioni può essere considerata un dramma, un enigma o un evento provvidenziale. Certo è che la divisione ha garantito la crescita di grandi patrimoni spirituali autonomi, ma ha portato anche ostilità, persecuzioni e sofferenze. Tutti attendiamo un momento chissà quanto lontano nella storia in cui le divisioni si risolveranno. In che modo, ognuno ha la sua visione. Ma nel frattempo ciascuno, rimanendo fedele alla propria tradizione, deve trovare un modo di rapportarsi all’altro. In pace e con rispetto.
Alla luce di questo, credo che siano due i segnali principali da mettere in evidenza in questo incontro di oggi. Il primo è quello della continuità. Il terzo papa a visitare la nostra Sinagoga conferma la validità e l’intenzione del gesto del primo papa che voleva significare la rottura con un passato di disprezzo nei confronti dell’ebraismo; l’intuizione di Giovanni Paolo II fu quella di tradurre in gesti concreti e messaggi essenziali e comprensibili a tutti le difficili elaborazioni dottrinali del Concilio. La sua visita alla Sinagoga ebbe questo ruolo e a sua volta aprì la strada per il riconoscimento dello Stato d’Israele. Il papa successivo, Benedetto, ha voluto confermare questa linea; ora la scelta di Francesco stabilisce una consuetudine. Interpretiamo tutto questo nel senso che la Chiesa Cattolica non intende tornare indietro nel percorso di riconciliazione. L’impegno personale di papa Francesco lo conferma, nei molti segni di attenzione che ha dimostrato nei confronti dell’ebraismo, da Buenos Aires come arcivescovo a Roma come papa. Ora è qui con noi.
Il secondo segnale di questa visita è dettato dall’urgenza dei tempi. Il Vicino Oriente, l’Europa e tante altre parti del mondo sono travagliate da guerre e terrorismo. La triste novità dei nostri giorni è che dopo i due secoli di disastri prodotti da nazionalismi e ideologie la violenza torna a scatenarsi alimentata e giustificata da visioni fanatiche ispirate dalla religione. E di nuovo si scatenano persecuzioni religiose. L’impulso distruttivo, in assenza di altri riferimenti e scuse, trova nella religione il sostegno e l’alimento. Al contrario un incontro di pace tra comunità religiose differenti, come quello che avviene ora a Roma, è un segnale molto forte che si oppone all’invasione e alla sopraffazione delle violenze religiose.
Non accogliamo il papa per discutere di teologia. Ogni sistema è autonomo, la fede non è oggetto di scambio e di trattativa politica. Accogliamo il papa per ribadire che le differenze religiose, da mantenere e rispettare, non devono però essere giustificazione all’odio e alla violenza, ma ci deve essere invece amicizia e collaborazione e che le esperienze, i valori, le tradizioni, le grandi idee che ci identificano devono essere messe al servizio della collettività. Dobbiamo insieme far sentire la nostra voce contro ogni attentato di matrice religiosa, in difesa delle vittime. Ma non dobbiamo essere insieme solo per denunciare gli orrori; dobbiamo lavorare e collaborare nel quotidiano. La nostra comunità investe tutte le sue risorse per garantire il suo futuro ebraico ma vive questo impegno in un rapporto armonico con la società, in favore di tutti.
Ieri in tutte le Sinagoghe del mondo abbiamo letto i capitoli del libro dell’Esodo che parlano dello scontro finale tra Mosè, che chiede al Faraone di liberare gli ebrei dalla schiavitù, e il Faraone, che gli si oppone con tutti i suoi mezzi. Non abbiamo un Mosè che ci guida, né, per fortuna, un Faraone da contrastare, anche se proprio la storia di questa Sinagoga dimostra che un re benevolo può trasformarsi in persecutore. Ma questa storia biblica, base delle nostre fedi, dimostra come la forza dello spirito riesce a trionfare e piegare anche i sistemi e i regimi più duri. Dobbiamo avere la consapevolezza della nostra forza e la fiducia nella bontà dei nostri valori. E procedere insieme per affermarli, in pace.
Abbiamo parlato di porte che si aprono. Vorrei citare, e condividere, per concludere, le parole dell’invocazione che recitiamo ogni giorno alla fine della preghiera della ‘amidà, secondo il rito italiano: “che ci siano aperte le porte della Torà, della sapienza, dell’intelligenza e della conoscenza, le porte del nutrimento e del sostentamento, le porte della vita, della grazia, dell’amore e della misericordia e del gradimento davanti a Te”. “Che Ti siano gradite, o Signore, mia forza e mio redentore, le mie parole e l’espressione del mio cuore”
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
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Inserito 17/01/2016
Relazioni Ebraico-Cristiane
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