Italia 27/04/2014 1582
Pubblicata su Corriere della sera
“È interessante tracciare un parallelo che risale a molto prima del Concilio, al 1946. Roncalli e Wojtyla che già allora mostrano uno spirito nuovo, due storie rivoluzionarie…”. Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma – la comunità ebraica più antica della diaspora, anche perché esisteva già prima – nei giorni della Pasqua ha ricambiato gli auguri di Francesco con un messaggio nel quale tra l’altro scriveva: “Tra pochi giorni onorerete solennemente la memoria di due grandi Papi che hanno cambiato positivamente la storia delle relazioni della Chiesa con l’ebraismo, e questo è per tutti un segno di speranza”. Una delegazione ebraica internazionale sarà presente domenica in piazza San Pietro. Il rabbino Di Segni sorride: “È chiaro che le canonizzazioni sono un fenomeno interno alla Chiesa cattolica, noi siamo spettatori. Però, considerate dall’esterno, significa che il comportamento di persone speciali viene indicato come esempio ai fedeli, un modello che identifica il gruppo”.
Perché parlava del ’46?
“Penso alla vicenda dei bimbi ebrei nascosti nei conventi negli anni della Shoah e che dopo la guerra non avevano più famiglia. Alcuni erano stati battezzati, varie organizzazioni ebraiche chiedevano fossero restituiti alle loro comunità ma da parte delle autorità ecclesiastiche c’era, diciamo così, un’enorme riluttanza. Il Sant’Uffizio dà disposizioni per bloccare la restituzione. È un momento nel quale, rispetto agli ebrei, esce tutto il cristianesimo preconciliare. Ecco, in quel momento Roncalli e Wojtyla si comportano altrimenti”.
Che cosa fanno?
“Roncalli, nunzio in Francia, fece come non avesse ricevuto alcuna disposizione e lavorò con il rabbino Herzog perché i bambini ritornassero alle loro comunità. È la tesi, suffragata da documenti, formulata dello storico Alberto Melloni. Del resto non si può dimenticare ciò che Roncalli aveva fatto durante la guerra, quand’ era nunzio in Turchia e aiutò moltissimi ebrei a fuggire”.
E Wojtyla?
“In quello stesso anno, in Polonia, una famiglia cattolica alla quale i genitori ebrei avevano affidato un bambino per sottrarlo alle persecuzioni naziste, porta il piccolo a un giovane sacerdote per farlo battezzare. Quel sacerdote era Karol Wojtyla che ascolta la storia del bambino e dice alla coppia: restituitelo al suo ambiente di origine”.
L’uno e l’altro compirono poi gesti rivoluzionati da pontefici…
“Il Concilio convocato da Roncalli e la dichiarazione Nostra Aetate del ’65 rappresentano una svolta epocale. Certo la Nostra Aetate va inquadrata nel suo tempo, a rileggerla oggi si sente un po’ il peso dell’età. Anche il famoso gesto di Giovanni XXIII che nel ’59 fa fermare l’auto davanti alla sinagoga e dà la benedizione suona ora un po’ paternalistico. Ma certo la dichiarazione conciliare è la breccia che fra crollare la diga. Oggi i rapporti tra ebrei e cristiani sono concepiti in modo differente, sia sul piano personale sia si quello teologico, ma senza quella svolta nulla sarebbe stato possibile”.
Il 13 aprile 1986 Giovanni Paolo II visita il Tempio Maggiore di Roma, primo Papa in diciannove secoli a entrare in una sinagoga, dopo Pietro…
“Nel caso di Wojtyla è fondamentale la sua biografia. Fin da bambino cresce a Wadowice circondato da amici ebrei, conosce il mondo ebraico alla radice. Poi se lo vede scomparire negli orrori della guerra, nella Shoah, un’esperienza che lo segna per tutta la vita. Giovanni Paolo II è un uomo di grande sensibilità mediatica, capisce che ci vogliono gesti per cambiare l’atmosfera. La sua visita alla sinagoga è storica perché abbatte psicologicamente le barriere di ostilità, mostra che quella è una casa di preghiera nella quale un pontefice entra con dignità e rispetto. Per i cristiani è una sorta di riscoperta delle proprie radici. Come poi accadde nel viaggio in Israele del 2000, la visita allo Yad Vashem, la preghiera al Muro occidentale…Uno dei temi fondamentali del dialogo ebraico- cristiano è l’abolizione del rapporto di disprezzo. E quel gesto è un capovolgimento di prospettiva, un segnale che tocca l’inconscio”.
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Relazioni Ebraico-Cristiane
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