Italia 15/01/2016 1461
Pubblicata su La Stampa, 15 gennaio 2016 Pubblicata su La Stampa, 15 gennaio 2016
Papa Francesco è il primo Pontefice della Chiesa cattolica ad aver pubblicato, prima dell’elezione, un libro contenente lunghi dialoghi con un rabbino. Abraham Skorka, 65 anni, rettore del Seminario Rabbinico Latinoamericano a Buenos Aires, è diventato grande amico dell’allora arcivescovo Bergoglio. Domenica 17 gennaio il Pontefice varcherà la soglia della Sinagoga di Roma, il grande Tempio ebraico che sorge al di là del Tevere, poco distante in linea d’aria dal Vaticano. È la terza volta che un Vescovo di Roma entra nella Sinagoga, dopo la prima, storica visita di Giovanni Paolo II (1986) e quella del suo successore Benedetto XVI (2010).
Rabbino Skorka, come è stato il rapporto dell’arcivescovo Bergoglio con la comunità ebraica in Argentina? Come siete arrivati a scrivere un libro sul vostro dialogo insieme?
«L’allora arcivescovo di Buenos Aires, cardinale Bergoglio, ha avuto un legame molto speciale con la comunità ebraica argentina, manifestato attraverso molteplici gesti tramite i quali ha dimostrato il proprio e profondo impegno con essa, e attraverso di essa, con l’ebraismo in generale. Ha creato dei rapporti di affetto molto profondi, come quello generato tra di noi. L’amicizia forgiata tramite degli incontri, nel senso che Buber era solito attribuire a questo termine, ci ha permesso di parlare liberamente, senza eufemismi. Così, abbiamo scritto un libro di dialoghi analizzando insieme i temi che preoccupano di più l’uomo contemporaneo, e poi abbiamo anche registrato, insieme a Marcelo Figueroa, 31 programmi televisivi».
Quale pensa che sia — se ce n’è una — la peculiarità dell’approccio di Francesco sul dialogo con i credenti di religione ebraica? E quali sono gli elementi di continuità con i suoi predecessori?
«Francesco ha continuato, da una parte, il percorso del dialogo ebraico-cattolico iniziato da Giovanni XXIII e approfondito significativamente da Giovanni Paolo II. Ma, dall’altra, ha fornito la propria impronta allo sviluppo di questo dialogo. Analizzando con cura il capitolo sui rapporti con l’Ebraismo nell’Evangelii Gaudium (247-249), vediamo che, seguendo la posizione di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI di considerare il popolo ebraico come i “fratelli maggiori” nella fede, e l’eterna validità dell’Alleanza tra Israele e Dio, descritta nella Bibbia ebraica, il Papa gli conferisce un luogo speciale nella sua esortazione apostolica. Sebbene nei primi articoli del suddetto capitolo vengano sottolineati soltanto gli insegnamenti indicati dei suoi predecessori, nell’ultimo dei paragrafi si nota il passo che fa Francesco al riguardo. Dice: “Dio continua a operare nel popolo dell’Antica Alleanza e fa nascere tesori di saggezza che scaturiscono dal suo incontro con la Parola divina. Per questo anche la Chiesa si arricchisce quando raccoglie i valori dell’Ebraismo... Esiste una ricca complementarietà che ci permette di leggere insieme i testi della Bibbia ebraica e aiutarci vicendevolmente a sviscerare le ricchezze della Parola”. A Buenos Aires abbiamo analizzato insieme in tante occasioni versetti della Bibbia Ebraica. È stata parte fondamentale del nostro dialogo. Essendo Bergoglio Grande Cancelliere della Pontificia Università Cattolica Argentina, l’ateneo mi ha conferito una laurea honoris causa. Il messaggio è stato molto chiaro: onorare e prendere in considerazione l’apporto culturale e religioso di un rabbino in una società a maggioranza cristiana. Il contributo di Francesco è l’appello ad approfondire il dialogo tramite l’approfondimento esegetico e teologico, e allo stesso tempo rafforzare gli sforzi per il lavoro comune a beneficio di un mondo più giusto ed equo. Ci siamo trovati all’inizio di un percorso in questo senso, che richiede molta riflessione e molto approfondimento nell’ambito intellettuale e spirituale, e anche un compromesso di fronte ai grandi drammi che colpiscono l’umanità nel presente».
Come interpreta la storia dei rapporti tra cattolici ed ebrei negli ultimi sessant’anni? Quale è stata la via intrapresa da Giovanni XXIII? E quale l’apporto di Giovanni Paolo II?
«Giovanni XXIII ebbe la chiara visione che dopo la Seconda Guerra Mondiale si apriva una nuova realtà per l’Europa e per il mondo, che chiedeva una risposta e un messaggio delle religioni. Per ciò ha posto le basi del Concilio Vaticano II. Dopo aver visto direttamente il dramma della Shoah e dopo aver salvato molti ebrei come delegato apostolico a Costantinopoli, si è impegnato nello sradicamento di quella situazione di mancato dialogo — che frequentemente implica l’odio — che c’era tra ebrei e cristiani. Nel nuovo mondo da costruire, quella macchia di sangue e morte doveva essere cancellata. Nostra Aetate è stato il fatto postumo della sua grande opera in questo tema. Questa dichiarazione ha funzionato come catalizzatore per i dialoghi che avevano ebrei e cristiani in diverse latitudini. Le successive dichiarazioni della commissione vaticana per il dialogo con l’Ebraismo hanno approfondito questo processo. Giovanni Paolo II è stato il secondo grande fautore per la continuità e per lo sviluppo di questo processo. Il suo chiedere perdono per gli errori del passato della Chiesa nei confronti del popolo ebraico, la sua storica visita alla Sinagoga di Roma, lo stabilimento di rapporti diplomatici pieni tra il Vaticano e lo Stato dell’Israele, la sua preghiera di fronte al Muro (del Pianto, ndr.) sono stati segni che getteranno per sempre la sua luce nei rapporti tra ebrei e cristiani».
La visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma, nel 1986, è stata storica. Come la ricorda? Cosa può dire su Benedetto XVI e la sua riflessione teologica molto profonda sullo speciale rapporto che esiste tra l’ebraismo e il cristianesimo?
«Entrambi gli eventi riferiti nella sua domanda segnano degli spartiacque nella storia dello sviluppo dei rapporti ebraico-cattolici impostati dalla Nostra Aetate. Giovanni Paolo II ha chiuso un capitolo doloroso nella storia di Roma, perché non c’erano stati rapporti di dialogo e di rispetto reciproco tra gli ebrei romani e il vescovo della città, il Papa. Ci si impiegano circa venti minuti, camminando riposatamente, per andare dal Vaticano fino al Grande Tempio di Roma. Tuttavia, ci sono voluti secoli perché un Papa facesse questo tragitto. L’abbraccio tra Giovanni Paolo II e il rabbino Elio Toaff, all’inizio di quella visita, rimarrà come immagine indelebile di comprensione e dialogo, per ebrei e cattolici, e come paradigma per tutta l’umanità. Allo stesso modo, la riflessione teologica di Benedetto XVI sul rapporto speciale che vincola l’Ebraismo con il Cristianesimo, corregge una divergenza storica, ponendo le basi di un avvicinamento e di una mutua riconoscenza, così da permettere agli ebrei e a i cristiani di approfondire nelle loro fonti per rinforzare autenticamente le loro identità, lavorando ognuno dalla propria, ma insieme, nella costruzione di una realtà migliore».
Un nuovo documento vaticano pubblicato il mese scorso afferma che «la Chiesa cattolica non conduce e non fomenta alcuna missione istituzionale orientata specificamente agli ebrei», perché il rapporto con loro è diverso da quello che c’è con tutte le altre religioni. Cosa ne pensa?
«Sin dalla approvazione della dichiarazione conciliare Nostra Aetate dignitari della Chiesa hanno manifestato in diverse occasioni che questa non avrebbe portato avanti alcuna azione evangelizzatrice né di missione con il popolo ebraico, così come fece drammaticamente in passato. Ma il documento “I Doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” lo esplicita ufficialmente. Si chiude così un capitolo molto doloroso nei rapporti ebraico-cristiani. A pochi metri della piazza del ghetto di Roma, che ricorda gli abitanti dello stesso che da lì sono stati portati ai campi di sterminio nazisti, c’è una chiesa nel cui frontespizio appare il versetto 65, 2 di Isaia: “Ho teso le mie mani tutto il giorno verso un popolo ribelle”. In questa Chiesa, e me lo hanno detto gli esperti della storia degli ebrei a Roma, si era soliti radunare compulsivamente durante il Medioevo, tutti gli abitanti del ghetto, per far loro ascoltare prediche missionarie di chierici cristiani. L’ultimo documento della Chiesa mette un punto finale a tutte queste storie di un triste passato».
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Relazioni Ebraico-Cristiane
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